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Nuove Note | 16 luglio 2017, 06:00

Rikom Carnera: il mio rap? Un martello per scolpire la realtà

Le prime rime le chiude nei freestyle, prima tra amici nei ritrovi giovanili e poi partecipando a diversi contest.

Rikom Carnera: il mio rap? Un martello per scolpire la realtà

 

Oggi Nuove Note vi fa conoscere un artista rap di Chivasso. Lui si chiama Rikom Carnera, anagramma del suo vero nome Mirko. Rikom si avvicina il rap all’età di undici anni grazie alle dritte musicali di un vicino di casa più grande di lui. Le prime rime le chiude nei freestyle, prima tra amici nei ritrovi giovanili e poi partecipando a diversi contest. Nel 2013 esce il suo primo album autoprodotto, è “Il suono della campana”. Adesso ha un disco pronto che si chiama “Odio di classe” e vedrà la luce il 7 novembre, data del centenario della Rivoluzione d’Ottobre.

 

Come nasce il tuo alter ego, se così possiamo definirlo, Rikom Carnera e perchè si chiama così?

 

Rikom nasce in seconda superiore, durante un’ora di matematica in cui, annoiandomi, mi ero perso ad anagrammare Mirko, il mio nome di battesimo. “Rikom”, tra tutte le combinazioni possibili, era quella che mi suonava meglio e mi dissi: “Ok, se un giorno farò rap seriamente, mi chiamerò Rikom”. Così, semplice semplice. Decisi in seguito di aggiungere Carnera: in primo luogo, per differenziarmi a livello fonico da Rico - oggi Freeso -, un altro membro della scena torinese con cui mi scontravo spesso alle battle – e con cui ho avuto il piacere di realizzare “Be water”, il mio ultimo EP; in secondo luogo, perché avevo intitolato “Primo Carnera” il mio primo progetto e tanti, appena lo feci uscire, avevano iniziato a chiamarmi semplicemente Carnera.

 

Rap e città, rap e periferia. La tua musica che rapporto ha con la città in cui vivi?

 

Ora, bellissimo, perché il rap va di moda. I ragazzi – ma anche gente molto più matura – mi fanno i complimenti quando faccio uscire qualcosa che li gasa, ascoltano in loop i pezzi, mi chiedono consigli su cosa ascoltare. Ma non è sempre stato così – e qui rischio di attaccare un pippone senza fine che manco Zagrebelsky sul referendum costituzionale. Quando non avevo ancora la barba e non mi piaceva ancora la birra, era veramente difficile star dietro al rap e alle altre discipline, soprattutto per chi, come me, abitava in provincia. Chi, a Chivasso, s’inculava il rap nella prima metà del duemila? Sì, ok, nel 2003 “8 Mile” era arrivato in Italia; ma nessuno dei miei amici di zona aveva veramente voglia d’imparare a fare freestyle, a buttare giù due rime. Così, iniziai ad allenarmi da solo, nel tragitto scuola-casa. Inoltre, mi ero avvicinato al rap grazie a un vicino di casa più grande che mi passava due dischi al mese, uno di rap italiano e uno di rap americano, con cui potevo confrontarmi e imparare qualcosa di nuovo di volta in volta; ma, per quanto i suoi consigli e i suoi insegnamenti avessero per me un valore inestimabile, lo beccavo giusto un pomeriggio al mese. D’altronde, avevamo circa sette anni di differenza. Alle superiori, fortunatamente, conobbi altra gente presa bene quanto me con l’improvvisazione. Ci radunavamo ogni sabato pomeriggio a San Mauro, alle “gemelle” – due panchine poste l’una di fronte all’altra –, per fare cypha. Da lì in poi, le cose sono andate decisamente meglio.

 

Due artisti, uno italiano e uno straniero, che più di tutti hanno influenzato la tua musica?

 

Per quanto riguarda l’Italia, ti dico Lou X, senza nemmeno pensarci su. Avevo più o meno undici anni quando “La realtà, la lealtà e lo scontro” entrò per la prima volta nello stereo di casa mia - grazie, Vins – e, anche se ero troppo giovane e immaturo per capirlo appieno, ascoltarlo mi faceva venire la pelle d’oca, incazzare, provare “stati d’ansia”. Insomma, mi trasmetteva qualcosa di forte. Per anni, ho ritenuto che il rap fatto bene fosse solo quello hardcore, senza vezzi, ricco di metafore, con un certo tipo di contenuti e contornato da atmosfere cupe proprio perché “La realtà, la lealtà e lo scontro” aveva educato il mio orecchio ad apprezzare quella roba lì. Va da sé che ciò che ascolti influenza la tua attitudine e ciò che scrivi, soprattutto agli inizi. Seppur abbia ampliato nel tempo i miei orizzonti musicali e possa orgogliosamente dire di aver creato uno stile mio, ben definito, l’impostazione datami da Lou X è ancora ben presente nel mio viaggio artistico.

Per l’estero, boh, non saprei… Ho ascoltato un casino di roba straniera, soprattutto americana e francese; ma mi è difficile pensare a qualcuno che abbia influenzato nettamente il mio modo di approcciarmi alla musica. Ti dico il Wu-Tang Clan perché è stata la prima crew di rapper a mischiare rap e arti marziali, un po’ come ho fatto io in “Be water” – anche se il jeet kune do non è definibile come arte marziale.

 

I tuoi dischi sono autoprodotti, ci racconti come avviene questo processo?

 

Il processo è molto semplice: lavoro, metto da parte qualche euro di mese in mese e mi pago registrazioni, mixaggio, video, stampa delle copie, ecc. Si fanno un po’ di sacrifici – vacanze in primis -, ma sono contento così. Per ora. Vuoi farmi da sponsor?!

 

“Odio di classe” è il tuo nuovo disco che uscirà nei prossimi mesi. Raccontaci come è nato e che messaggio vuole lanciare.

 

Ho scritto il 90% del disco durante i miei dieci mesi in Belgio, tra il 2015 e il 2016. Majakovskij disse che l'arte non è uno specchio cui riflettere il mondo, ma un martello con cui scolpirlo. Ecco, “Odio di classe” è un martello che si va ad aggiungere a milioni di altri martelli sparsi per i quartieri, le scuole, le università e i luoghi di lavoro che scolpiscono quotidianamente la realtà in cui viviamo. Il messaggio che vuole lanciare è di non accettare passivamente la propria condizione di lavoratore sfruttato, di disoccupato o di studente con un futuro da precario, ma di prenderne pienamente coscienza per organizzarsi e, soprattutto, per lottare.

 

 

La tua Torino musicale e non?

 

La Torino degli aperitivi nei bar di via Garibaldi o quella che vince il titolo di capitale degli sfratti 2016? La Torino dei negozi di via Roma o quella di chi si dà fuoco davanti agli uffici dell’Inps? Io vedo due Torino. Ma non ho ancora capito dove stia la smart city. A livello musicale, che dire: Torino spacca.

 

Hai dei live in programma a breve?

 

Per ora, no. L’estate mi servirà in larga parte per chiudere il disco, studiare come fargli raggiungere il più alto numero di teste e girare almeno due video.

 

 

https://www.facebook.com/rikomcarneraofficial/

Federica Monello

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