Eventi - 13 maggio 2018, 10:38

#SalTo18, il cinema secondo Bertolucci: “O si medita o si guarda un bel film”

Il dialogo tra il Maestro, regista di capolavori come “Ultimo tango a Parigi” o “Il tè nel deserto”, e Luca Guadagnino, Premio Oscar per la sceneggiatura con “Chiamami col tuo nome”

Quando Bernardo Bertolucci è entrato nella Sala Gialla del Salone del Libro, ieri, il pubblico si è alzato in piedi, così come quando è andato via. Contare gli Oscar non ha nemmeno senso di fronte a un personaggio come lui, che ha dialogato con Luca Guadagnino durante un incontro moderato da Elena Stancanelli. Un dialogo che, però, si è presto trasformato in un’intervista, nella quale Bertolucci si è raccontato, parlando del maggio francese, di Fellini e del suo grande amore per il cinema.

Il 1968, a cinquant’anni dai movimenti del “maggio francese”, tra i temi del Salone di quest’anno, è lo spunto da cui partire. “In quel periodo – ha raccontato Bertolucci – stavo girando ‘Partner’, il protagonista faceva su e giù da Parigi e mi raccontava dei nuovi slogan sui muri. È stato un modo per essere lì restando a Roma, fu un anno molto pieno”. “Per me il ’68 è stato un passaggio obbligato per la mia formazione di cinefilo – ha aggiunto Guadagnino – anche se non ero ancora nato. L’esperienza di quegli anni si è prestata a diverse riscritture”. “Pensi – ha poi chiesto, rivolgendosi a Bertolucci – che ci sia stato un egoismo da parte dei sessantottini?”. “Sciocchezze – ha risposto – perché era già così importante quello che erano riusciti a fare”

“Partner – ha aggiunto il Maestro – è girato in quel momento con quel tipo di passione, con quella voglia di identificarsi con Godard ma volendo essere diversissimi. “The Dreamers-2, invece, è stato un film sulla mia nostalgia del momento in cui girai Partner”. E la storia si intreccia così con il cinema, con la nostalgia per la quale “non ci deve essere ribrezzo”. Anzi. “Il mio pensiero – ha spiegato Guadagnino – è sempre nostalgico perché si applica all’idea di qualcosa che manca, di un film che ho visto piuttosto che di cose che ho vissuto nella vita”. Una nostalgia che si traduce anche nella necessaria distanza che il regista deve porre nell’approcciarsi al suo film.

Ma si è parlato anche di doppiaggio, a partire dall’esperienza di Bertolucci che, all’età di 17 anni, ebbe modo di vedere “La dolce vita” di Fellini in versione originale, con Marcello Mastroianni che parlava in italiano e Anita Ekberg che recitava in inglese. “Aveva un suono diretto – ha spiegato – ed è stato come scoprire un regista che aveva inventato il suo mondo, mi diede la voglia di fare cinema”. Ed era soprattutto per la versione originale. “Ho imparato a detestare – ha confessato – il fatto che in Italia il doppiaggio sia come un dato di fatto, che nessuno riesce a cambiare”.

Nel cinema di Bertolucci c’è anche Bresson, soprattutto Bresson, che ha amato particolarmente. “Ho capito che il cinema – ha spiegato – poteva avere con il pubblico un rapporto di desiderio e sensualità, facendosi amare. Invece del kamasutra avevo inventato il camerasutra, il kamasutra del cinema”. “Ho iniziato a fare cinema – ha aggiunto Guadagnino – amando il cinema di Bertolucci e anche la sua figura. A me interessa poco la storia che racconto, mi interessa di più pensare al gesto di fare un film”.
“Meditare – ha concluso Bertolucci – è ad esempio una delle esperienze più straordinarie e potenti che si possano avere. Ecco, o si medita, o si guarda un bel film. In qualche momento le due cose arrivano a toccarsi”.

Paolo Morelli