Secondo Mario Martone, Tango Glaciale da lui creato, nel 1982, a 22 anni, con il gruppo Falso Movimento nato a Napoli nel 1979, è tutt’altro che un’operazione nostalgica, bensì “una macchina del tempo” reloaded, ovvero “ricaricata” da Anna Redi e Raffaele Di Florio su tre giovani danzattori nel 1982 non ancora nati. Per RIC.CI - Reconstruction Italian Contemporary Choreography Anni ‘80/’90, la pièce del regista napoletano è un tassello necessario. Dà conto di quanto negli anni della nostra “tradizione coreografica del nuovo”, anche il teatro sperimentale si muovesse in una direzione fisica, “alla Artaud”, refrattaria a testi e parole come unici veicoli espressivi. Qui, in sessanta minuti, una cascata di immagini, musiche non solo pop e jazz, danze e azioni/citazioni crea un universo di ritmica freschezza.
A sorpresa, questo postmoderno anni ‘80 ci catapulta ancora nel futuro. Come? Simulando un percorso narrativo incentrato sull’attraversamento di una casa da parte di tre personaggi: due uomini e una donna in un rapporto tra loro non ben definito.
Dall’esterno, sulla strada, si procede verso la casa a più piani ma non prima di una schizofrenica immersione dei tre protagonisti di spalle, in un getto di interferenze visive, strisce colorate e punti neri, come quando si cerca di sintonizzare il televisore su di un canale. Il viaggio “casalingo”, quanto mai paradossale, consta di dodici stazioni e due “fiati sospesi” che segnano la fine di una ideale prima parte e dell’insieme. Dallo zoom sul salotto assai colorato e con strisce da cartoon, si passa nell’antica Grecia, in costumi consoni, sullo sfondo di un lungo colonnato e la riproduzione del Discobolo, da parte di un danzattore. L’ascensore interno alla casa ci immette in una stanza con serrande dove si balla un tango con l’aspirapolvere ma anche tra uomini, assai diversi tra loro ma che ormai abbiamo imparato a conoscere, giudicando da quelle apparenze che secondo Oscar Wilde non mentono mai sui tratti invece interiori degli esseri umani.
Nuova sorpresa: i tre in impermeabile da film poliziesco si trovano sul tetto della casa, tra fughe, inseguimenti, pistole, comignoli e antenne. Le stelle di un galassia lontana e sognante diventano stelline di Broadway; il sax comincia a suonare (primo “fiato sospeso”), si balla sulle note di Duke Ellington: è una citazione dal film New York New York di Martin Scorsese.
La seconda parte di Tango Glaciale reloaded ci tuffa in una piscina dove cadono automobiline in un’acqua virtuale. C’è chi s’immerge nel liquido, chi pretende di tuffarvisi, chi si scatena in un rap su base elettronica. Ma quando compare un giardino fiorito i tre, di spalle, ci trasportano in Cina muniti di implacabili forbicioni da presunti giardinieri poco dopo nascosti da maschere da elefante e tigre: il giardino si è trasformato in una foresta… Il rientro a casa passa per la cucina a scacchi bianchi e neri; all’ingresso di pacchi portati dall’interprete femminile cresce la baraonda: gli oggetti cominciano a muoversi; uno dei danzattori si fa la doccia e schizza l’acqua luminosa che lo bagna. Ai litigi segue la distruzione della casa e chi si straccia le maniche della camicia attende il sax per suonare l’ouverture dell’Arlesienne di Bizet alquanto rallentata.
È il secondo “fiato sospeso” e la citazione è tratta da The Conversation di Francis Ford Coppola… La distruzione totale dell’ambiente è catastrofica per il danzattore/musicista che vi soccombe, ma si apre sullo squarcio di un paesaggio desertico, con canyons poco assolati. Non accenniamo ai movimenti, né alle parole, né ai testi recitati in più lingue: abbiamo già svelato troppo.
Tango Glaciale ora reloaded con la sua perfetta sincronizzazione e la sua spiazzante e folle energia finisce di essere logico, razionale, o davvero “narrativo” nel momento stesso in cui inizia a respirare. La musica è il suo racconto e la sua struttura più che rigida che in quanto tale non lascia scampo, proprio come la rapidità di ogni azione. La pièce, di certo anni Ottanta e postmoderna, potrebbe ormai essere tranquillamente definita “coreografica”. Non solo: nella sua espressività trasversale e inclusivista rientra nell’ambito dell’“opera coreografica”, a nostro avviso le dernier cri della coreografia contemporanea odierna, ancora traballante, ma proiettata verso il futuro.