Lo storico Stefano Mormile ci accompagna nella famosa polemica del Risorgimento “Scialoja-Magliani”.
Il periodo storico in cui si inserisce la polemica originata dallo scritto dello Scialoja “Note e confronti dei bilanci del Regno di Napoli e Stati Sardi” è il Risorgimento. Correva l’anno 1857. In Italia il processo “rivoluzionario”, il cosiddetto Risorgimento, prese avvio dopo la caduta di Napoleone (1815) e si protrasse per circa cinquant’anni, concludendosi nel 1861 con la liberazione della Lombardia dall’Austria e con l’annessione al Piemonte di gran parte degli Stati italiani. A questa data rimanevano ancora esclusi il Veneto e Roma (che entreranno a far parte del Regno d’Italia rispettivamente nel 1866 e nel 1870), e il Trentino e la Venezia Giulia con Trieste (annessi solo nel 1918).
Sotto l’influsso degli sviluppi politici, economici e culturali, che ebbero luogo in Europa, anche la società italiana o, per meglio dire, le regioni italiane meglio collegate all’Europa progressivamente cambiarono volto tra il 1830 ed il 1848.
In questo arco di tempo – come apprendiamo da uno studioso non accademico del Mezzogiorno, Vincenzo Napolitano – si fondano le premesse del Risorgimento, soprattutto al nord, dove l’impulso del capitalismo agricolo si fece sentire maggiormente, insieme ai primi segni di trasformazione industriale, in larga misura collegata all’agricoltura.
In questo contesto, maggiore e più precisa fisionomia assunsero le forze sociali ed intellettuali, le correnti politiche e di opinione che più tardi divennero protagoniste della parentesi risorgimentale
Dal punto di vista economico, le regioni italiane non compirono il rapido processo industriale che contemporaneamente avveniva in altre nazioni europee; in pratica, la rinascita economica si limitò all’Italia settentrionale.
Di fatto, due ostacoli principali impedirono lo sviluppo dell’economia degli Stati italiani: la scarsità dei capitali e la ristrettezza dei mercati di consumo (conseguenza della frammentazione politica della penisola e delle cattive comunicazioni).
Nel primo ventennio dell’Ottocento acquistarono una precisa fisionomia le forze sociali ed intellettuali, che avrebbero avuto poi il peso determinante nello svolgimento delle lotte risorgimentali. La necessità di formare un mercato nazionale, auspicata soprattutto dalle forze imprenditoriali capitalistiche, fu uno dei motivi che guidò il processo unitario, ma nel complesso, l’unità nazionale italiana nacque prima come idea e programma politico, poi come necessità economica.
I moti rivoluzionari del 1830-31 misero in luce le debolezze dell’attività cospirativa di tipo carbonaro e dimostrarono l’opportunità di superare i particolarismi locali: senza dubbio, quegli avvenimenti, scoppiati nell’Italia centrale sull’onda della rivoluzione di luglio in Francia, segnarono l’ultima esperienza di lotta secondo i metodi ed i programmi delle società segrete sorte durante la Restaurazione, in particolare della Carboneria. Il fallimento, determinato anche dal ripiegamento della politica francese e da un ennesimo intervento austriaco, consentì comunque di riflettere sui nuovi metodi e sui nuovi indirizzi d’azione politica da utilizzare.
Si fece avanti in questo periodo l’alternativa democratica, popolare, unitaria e repubblicana di Giuseppe Mazzini e si rafforzarono le correnti del liberalismo riformista, generalmente favorevoli ad una soluzione federale del problema nazionale.
Gli ideali mazziniani, che investivano con accenti religiosi il problema di tutte le nazionalità oppresse, pur assumendo un respiro europeo si scontravano tuttavia contro la realtà degli Stati e del sistema politico italiano.
Tra rivoluzione e reazione, prevalse la prospettiva riformistica liberale che prese vigore dalle fila della borghesia illuminata: essa assunse diverse fisionomie. Dal liberalismo moderato di Cesare Balbo, Massimo D’Azeglio e Giacomo Durando, che prospettavano una civiltà europea e cristiana, al neoguelfismo divulgato da Vincenzo Gioberti, il quale riteneva l’unità politica italiana legata ad una confederazione di Stati guidata dal Papa, al liberalismo democratico di Cattaneo, sostenitore di un’Italia federale da realizzare sul modello svizzero.
Per qualche tempo, alcuni regnanti, ed in primo luogo il re di Sardegna Carlo Alberto, si mostrarono disponibili ad accogliere talune delle istanze riformatrici, almeno per svecchiare i loro Stati, rimasti legati ad ordinamenti chiaramente anacronistici. L’avvento poi del pontificato di Pio IX, nel 1846, all’inizio sovrano riformatore moderatamente liberale, costrinse altri sovrani italiani, anche dietro pressione popolare, ad adottare provvedimenti più democratici.
Questo periodo del Risorgimento italiano va inquadrato, per essere compreso pienamente, nello scenario delle rivoluzioni, che quasi contemporaneamente si svolsero in tutta Europa: i moti che portarono la Francia ad una trasformazione in senso democratico del regime liberale e l’Austria e la Prussia all’instaurazione di nuovi sistemi costituzionali e rappresentativi, che sostituivano l’assolutismo; l’esplosione dei movimenti nazionali in molte regioni d’Europa.
Rispetto ai moti precedenti, il ’48 viene determinato dal forte desiderio di unità nazionale. Le diffuse aspirazioni di quei popoli non ancora raccolti in Stati nazionali, come gli italiani, i tedeschi, gli slavi, gli ungheresi, vennero ad intrecciarsi, in vario modo, con le tendenze costituzionali, con i programmi democratici e con le attese di trasformazione sociale: si fece così largo l’idea, che ancora mancava nei moti del ’20 e del ’30, della libertà dalla dominazione straniera, e quindi il concetto di indipendenza nazionale, nonché l’idea della libertà dal predominio e dal privilegio dei ceti più forti.
Il parziale fallimento dei moti del ’48, soprattutto in Italia, fu dovuto alla frammentarietà delle rivoluzioni che, seppure scoppiarono in quasi tutta la penisola, non ebbero coesione d’intenti ed azione coordinata.
I patrioti italiani percorsero tre strade, tutte in qualche modo legate a necessità locali: 1. La strada delle Costituzioni; 2. La strada delle insurrezioni popolari contro l’Austria (seguite dalla prima guerra d’indipendenza); 3. La strada dei democratici (con la Repubblica romana di Mazzini e la Repubblica veneziana di Daniele Manin). La gran fiammata rivoluzionaria del 1848 si estinse però per 3 motivi: 1. per le sue contraddizioni interne, 2. per il prevalere delle forze interessate alla conservazione sociale, 3. per la reazione, nuovamente vincente, delle potenze garanti dell’ordine europeo.
Poco più tardi, Camillo Cavour, nella sua lungimiranza, dimostrò che l’indipendenza e l’unità italiana potevano compiersi solo se portate all’attenzione delle grandi potenze europee ed inserite nella categoria delle questioni internazionali.
Il Dottor Mormile vi da appuntamento a domenica prossima per raccontarvi il secondo episodio della vicenda storica che avrà come protagonista Agostino Scialoja e il suo ruolo di economista liberale.