Ottant'anni non bastano a cancellare un'onta grave come la promulgazione delle leggi Razziali, ammesso che esista un lasso di tempo sufficiente a farlo. Ma la memoria, invece, sembra essere molto meno severa nella sua azione.
Ecco perché, a 8 decenni da quei tempi così bui, non si possono risparmiare sforzi ed energie per ricordare cosa furono e cosa hanno generato, nella quotidianità e nel profondo, quelle leggi infami e assassine, prologo della Shoah nazista e compimento della dittatura fascista in Italia.
E tra le tante iniziative messe in campo, spiccano nell’ambito del “Progetto 1938-2018. A 80 anni dalle leggi razziali”, la mostra “Scienza e vergogna. L'Università di Torino e le leggi razziali”, organizzata dall’Ateneo per indagare il drammatico rapporto che l’Università torinese ebbe con questo momento cruciale della storia del nostro paese, e l’installazione multimediale “Che razza di storia”, percorso interattivo allestito al Polo del 900, curato dal Museo diffuso della Resistenza, in collaborazione con Istoreto (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea "Giorgio Agosti"), il Centro internazionale di studi Primo Levi, l'Unione Culturale Franco Antonicelli e la Comunità ebraica di Torino, utile a collocare nel tempo e nello spazio le leggi razziali, richiamando la concreta realtà dei fatti accaduti e proponendo alcuni interrogativi.
Proprio l'università, nella sua sede centrale di via Po, Palazzo del Rettorato, ha installato lungo le scale che portano al primo piano i nomi delle tante persone che, con la complicità dell'università stessa, finirono nel tragico meccanismo discriminatorio delle leggi Razziali. Gradino per gradino, nome per nome, dai docenti ai semplici impiegati. Finiti nel mirino perché ebrei: 58 in tutto, private del loro lavoro. E quella dell'Università di Torino fu, come dice Enrico Pasini, uno dei curatori della mostra, "una evidente esibizione di zelo" nello schedare e preparare la cacciata delle persone discriminate dalle loro strutture.
I loro nomi scandiscono l'ingresso alla mostra, visitabile fino al 28 febbraio, mentre nelle sale si apre un percorso tra documenti e testimonianze. "Oggi come allora le istituzioni hanno la possibilità di scelta tra allinearsi o distaccarsi. E una mostra come questa vuole avere un alto valore civile".
A livello torinese, "non ci sono segnalazioni di attacchi fisici alle persone che fanno parte della comunità ebraica, ma di sicuro aumentano le scritte sui muri e anche sul web si moltiplicano i video intolleranti", dichiara Dario Disegni, presidente della comunità ebraica torinese. "E sappiamo come sono cominciate le cose, anche se non mi sento di dire che andranno nella stessa maniera. Ma è necessario fare memoria perché spesso chi scrive certe cose non sa nemmeno cosa sia successo".
"I social sono mezzi che amplificano l'odio, non solo razziale ma anche generale. E finiscono per far da innesco a dinamiche che da sempre covano nella società - spiega il rettore dell'Università, Gianmaria Ajani - e il nostro compito di formatori, a tutti i livelli, è educare e monitorare questi fenomeni. Dobbiamo porci il tema di come raccontare orrori del passato in una maniera che intercetti le nuove generazioni".