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Attualità | 18 novembre 2018, 09:00

Viaggio nella storia: " Fotografia del Mezzogiorno e confronto col Settentrione"

Continuiamo oggi con il secondo appuntamento sulla Polemica Scialoja-Magliani affrontano e analizzando il Mezzogiorno con il Settentrione dell’epoca a cura di Stefano Mormile

Viaggio nella storia: " Fotografia del Mezzogiorno e confronto col Settentrione"

"Per comprendere l’origine delle strutture capitalistiche del Sud dell’Italia è necessario andare indietro nel tempo, risalendo fino alla metà del settecento. In questo periodo possiamo notare come dal feudalesimo si passi a una situazione chiaramente capitalistica.

Nell’Ottocento, era ancora un’economia arretrata e prevalentemente agricola quella del sud: ma è indiscutibile che si stessero già instaurando rapporti avanzati.

La terra, ad esempio, da mezzo per produrre valori d'uso diviene mezzo per far danaro; si sostituiscono, così, ai vecchi rapporti feudali o semi-feudali, rapporti di natura monetaria. Gli investimenti nella terra, dopo adeguata lavorazione ottenuta mediante prestazione d'opera dei non possessori (retribuiti con semplice salario), davano possibilità di lauti profitti, mediante la vendita a prezzi progressivamente crescenti dei prodotti che erano il risultato della coltivazione.

La borghesia mercantile ed usuraia era già presente nel feudalesimo. Emarginata ed esterna rispetto alla produzione, si trasforma; in quanto possidente di ingenti quantità di danaro (perché, in un'epoca di lievitazione dei prezzi come quella di cui stiamo trattando, aveva accresciuto di molto il proprio potere economico), assume le caratteristiche distintive nei successivi rapporti specificatamente capitalistici. Oppure viene a perdere la propria funzione nel tentativo di trasferire ad altri il rischio ed il peso della conduzione agricola, tentando di stabilizzare e perpetuare la propria posizione economica basata sulla pura rendita parassitaria (ma il fenomeno riguardò soprattutto il ceto nobiliare di marca feudale). Succedeva infatti (soprattutto in Sicilia) che i nobili cedevano volentieri i feudi in affitto, per potersi trasferire in città, ad un ceto medio speculatore dotato di capitali e spinto ad investire nella terra quale come mezzo semplice per ottenere alti profitti mediante la forzatura dei prezzi dei prodotti agricoli.

Nasce così la figura del gabellotto, l'affittuario di un latifondo che gestisce al posto del proprietario, subaffittandolo o dandolo in mezzadria in piccoli lotti ai braccianti. Egli, sostituendosi al signore feudale, appesantisce gli obblighi del colono, colpisce i diritti consuetudinari dei contadini che vengono in massa a proletarizzarsi, trasformati in braccianti retribuiti con salari da fame: nasce così, nelle campagne meridionali (segnatamente siciliane) il profitto capitalistico.

D'altra parte i gabellotti avevano eroso i vecchi rapporti feudali costringendo il ceto nobiliare, oberato di debiti, ad un sempre più massiccio esodo dai diritti giuridici sulla terra.

L'allontanamento dalla terra è rapido: la stessa monarchia assoluta interviene nel 1752 abolendo l'enfiteusi e favorendo, con la diffusione del bracciantato, il sorgere di rapporti più tipicamente capitalistici. Le generazioni seguenti divennero sempre più esterne alla terra avendo perso ogni contatto con essa (che nel frattempo si era trasformata) e i suoi problemi.

Il potere quindi si trasferisce sempre più nelle mani dei gabellotti fino all’istituzionalizzazione della legge sull'affitto delle terre che prima era semplicemente tendenza. Si delinea quel processo di concentrazione delle ricchezze analogamente al modo con cui esso avviene in Inghilterra: un ceto medio di fittavoli si arricchisce da una parte intensificando lo sfruttamento della forza lavoro, dall'altro emarginando i grandi proprietari.

Alle tre categorie economiche del capitalismo agrario (rendita - profitto - salario) corrispondono le tre figure giuridiche sociali dell'agricoltura meridionale dell'epoca: quella del nobile (proprietario), del neo-borghese (affittuario-imprenditore), del bracciante o proletario agricolo (salariato).

Fu il periodo in cui si pose in gran risalto il massiccio fenomeno dell'urbanesimo, specie in Sicilia. Le borgate agricole, invece, vedono un calo di presenza di mano d'opera molto rilevante: i piccoli villaggi del centro dell'isola perdono complessivamente il 50% della popolazione e tutto ciò, naturalmente, contribuisce a infrangere in maniera irreversibile il vecchio legame contadino-terra. Contribuisce naturalmente anche ad incrementare il processo di mercantilizzazione dell'economia (data la crescita della quota di produzione che va al mercato cittadino) come era già avvenuto in precedenza nei Paesi Bassi e in Inghilterra .

I suddetti rapporti di produzione, già chiaramente capitalistici e tipici in tutta l'economia del Sud, vengono ulteriormente diffusi con l'occupazione napoleonica nel meridione continentale e inglese in Sicilia. In che modo influiscono tali eventi sulla economia del Sud?

Il regime murattiano si propone principalmente quanto segue: l’integrazione del Sud in uno spazio economico dominato dalla Francia produttrice di manufatti e che vede il Sud in stato di colonia, come produttore di generi agricoli in grado di soddisfare le esigenze della città. Divisione del lavoro dunque tra Paesi produttori di manufatti e Paesi produttori di derrate agricole con conseguente preminenza dei primi e sfruttamento coloniale dei secondi. Per realizzare ciò i francesi sferrano un duro colpo finale al feudalesimo, già in agonìa, con riforme giuridico-amministrative, di diretta derivazione dal codice napoleonico, tendenti a creare un apparato politico (e giuridico) funzionale al mercato e al profitto.

L'occupazione inglese in Sicilia determina una svolta ma favorisce soprattutto lo svilupparsi del capitalismo in agricoltura. L'Inghilterra infatti invade ldi manufatti a basso prezzo l'isola che è costretta, per pagarli, ad investire soprattutto nell'agricoltura. La situazione viene sanzionata anche a livello formale: nel 1810 verranno eliminate le esenzioni fiscali a vantaggio della feudalità e nel 1812 viene sciolta la stessa feudalità e concessa, su pressioni degli inglesi, la Costituzione.

Insomma, possiamo senza dubbio affermare che il Meridione si era già evoluto a nuovi rapporti capitalistici di produzione superando anche in agricoltura il principio della riproduzione semplice e dell'autoconsumo e operando secondo i principi di una continua espansione economica.

Né il ritorno dei Borboni inverte la tendenza venutasi ad esprimere coi precedenti regimi; anzi essa viene ratificata e legittimata dal nuovo potere le riforme avviate in precedenza.

Il protezionismo industriale borbonico, pur strozzando le esportazioni dei prodotti agricoli (facendone cadere i prezzi), stimolò lo sviluppo industriale attirando il capitale straniero in quanto gli alti dazi permettevano infatti alti profitti per alti investimenti. Va aggiunto che le barriere doganali rendono possibili prezzi eccezionalmente alti dei manufatti in contrapposizione ai bassi prezzi dell'agricoltura, instaurando così la dialettica dello scambio diseguale tra città e campagna in cui quest'ultima è sfruttata a vantaggio della prima in quanto lo sviluppo industriale è più rapido ed ha la preminenza su quello agricolo.

Crescono e si moltiplicano le compagnie commerciali d'investimento che in soli due anni (1831-33) passeranno da 1 a 6 milioni di ducati di capitale, mentre sono in netta e costante ascesa le loro azioni.

La politica doganale dei Borboni parte dalla preoccupazione che il Paese possa venire schiacciato dai Paesi più forti, dall’obbiettivo di tenere in parità la bilancia dei pagamenti e dalla volontà di impedire fughe di capitali all'estero. Non è dunque l'espressione di una chiusa società feudale ma di una società “capitalisticamente” in via di sviluppo che, operando nel vivo dei mercati internazionali, tenta di premunirsi dalle tendenze imperialistiche che si delineano minacciose, con una oculatissima politica protezionistica che mirava ad uno sviluppo dell'industria all'ombra del protezionismo ed a spese dell'agricoltura.

Ma la posizione politica dei Borboni era precaria e poteva contare su sole forze interne. La borghesia agraria era libero-scambista e contraria, quindi, alla politica dei dazi doganali. La borghesia industriale (favorevole al protezionismo) ambiva ad una economia inserita nel suo contesto naturale: quello di un sistema liberale costituzionale che le consentisse maggiore autonomia politica. Il proletariato urbano, cui era stato impedito di riorganizzarsi, era fatto sopravvivere con bassissimi salari; i braccianti e i contadini poveri, vivendo la situazione economica in modo identico alla classe operaia in città, si muovevano con crescente ostilità verso il regime.

Di fatto tutta la società si muoveva, prima in silenzio poi con sempre più vigore, contro i Borboni che ormai erano universalmente avversati. Era iniziata anche la diffusione delle idee socialiste, coi moti contadini lucani del 1848, tanto che i Borboni, per avere una base seppur minima di massa, dovettero ricorrere all'appoggio del brigantaggio. I briganti-contadini intendevano la loro guerriglia, per ispirazione che veniva dall'alto, come lotta dei poveri contro i ricchi (sia autoctoni che piemontesi) .

A livello internazionale, poi, l’ostilità di Austria e Inghilterra fecero indugiare e desistere i Borboni dalla prospettiva di prevenire i Savoia, nel tentativo di guidare il progetto unitario-costituzionale. Il crollo dei Borboni, negli anni ’50, era, così, ormai imminente.

Dopo aver analizzato la situazione economica generale dell’Italia meridionale, vediamo adesso in dettaglio come era ripartita la produzione agricola nelle singole aree del Sud in rapporto al Nord.

Le province dell'ex regno borbonico producono quasi la metà dei cereali e dei legumi, la metà delle patate, il 60% dell'olio, il 20% del vino e dei bozzoli di seta, la totalità degli agrumi e del cotone. Anche per la produzione del tabacco e della frutta il Sud è in testa. Viene distanziato dal Nord per i bovini (che ne ha quasi il 90%) ma ritorna in testa per quanto concerne invece gli ovini e i caprini (più del 50%), per gli equini (60%) e per i suini (55%) .

Il Nord ha invece la totalità della produzione di riso per evidenti ragioni climatiche.

Pur con qualche settore in disavanzo rispetto al Nord, il Sud è, quindi, tutt'altro che staccato. Anche per ciò che concerne la produttività della terra i dati ci dicono che il Meridione con il 43,5% della superficie nazionale coltivata a cereali (la metà circa del terreno produttivo del Sud), ha il 47,7% della produzione; con il 32,4% dei castagneti ha il 36,5% della produzione. La popolazione attiva era al Sud il 63% del totale (media italiana 57,4%), ma solo il 56,6% di essa lavorava in agricoltura contro il 59,7% della media nazionale.

Da ciò risulta evidente il carattere mercantile, concorrenziale e dinamico dell'agricoltura nel Sud e che non esisteva un serio divario tra Nord e Sud come a tutti i costi lo Scialoja affermava nella sua dissertazione; divario che si avrà, invece, in epoca successiva.

Vediamo infine quale era la situazione dell’industria, anch’essa criticata dallo Scialoja. Nel 1861 il Sud aveva il 51% di tutti gli operai impiegati nell'industria italiana; il che contrasta decisamente con la visione di un Sud preindustriale o addirittura feudale. Nel campo della seta il Nord era in netto vantaggio, ma più per la estensione della produzione che non per il livello tecnologico (le imprese del Nord erano disperse, arretrate e poco meccanizzate, mentre esisteva, nel casertano, la fabbrica di S.Leucio conosciuta in tutta Europa e la cui produzione veniva largamente esportata).

Nel campo cotoniero, mentre al Nord la Lombardia produce 16 milioni di metri di tessuto al Sud la Campania con i soli stabilimenti meccanici, minoritari rispetto alla diffusissima lavorazione a domicilio, ne produce 13 milioni (il più grosso opificio lombardo, la Filatura Ponti, nel 1848 aveva 414 operai contro i 1300 del cotonificio Egg di Piedimonte).

Il settore cantieristico vede invece il Sud in vantaggio: nei due soli grandi cantieri del golfo di Napoli lavorano 3400 operai su 6650 del ramo in tutta Italia. A Castellammare ci si organizza per la lavorazione di scafi in ferro mentre Napoli diventa il maggior centro italiano per la produzione di macchine e motori marini. L’arsenale-cantiere di Napoli impiega 1600 operai (a Castellammare 1800) ed è l’unico ad avere un bacino di carenaggio in muratura lungo 75 metri (la flotta napoletana e siciliana ricopriva i 4/5 del tonnellaggio dell’intera flotta italiana e possedeva 20 piroscafi a vapore) .

Le cartiere erano fiorentissime e registravano un’espansione e una capacità produttiva a livello europeo.

Per ciò che riguarda la siderurgia, il Sud impiegava 20 mila operai: solo 4.000 meno rispetto al Nord. Ma il confronto è senz’altro favorevole al Sud per il maggior grado di concentrazione ed il miglior livello tecnico delle sue aziende (solo l’Ansaldo di Genova era a livello di grande industria ma aveva 480 operai contro i 1000 di Pietrarsa cui si accostavano la Zino ed Henry di Napoli con 600 operai e la Guppy, sempre di Pietrarsa, con altrettanti operai e ad altissima competenza tecnologica). Inoltre, due delle tre fabbriche italiane per la fabbricazione di locomotive erano al Sud.

Per le industrie estrattive lo zolfo siciliano copriva il 90% della produzione mondiale e assorbiva 1/3 degli operai del settore".

Il Dottor Mormile vi da appuntamento a domenica prossima per raccontarvi il quarto episodio della vicenda storica in cui vi mostrerà la fotografia del Mezzogiorno a confronto col Settentrione.


Redazione

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