Il tempo passa e non trovi mai l'occasione giusta e quando finalmente ci riesci, è troppo tardi per sanare il debito.
Correva l’anno 1983 e quel 27 di marzo era in programma il derby della Mole. Loro strafavoriti, benché non sia una novità. Ma in quegli anni, avere il pronostico dalla propria, per i bianconeri non era sinonimo di tranquillità, malgrado potessero calare sul tavolo verde del Comunale sei Nazionali più Platini e Boniek.
Eppure le cose sembravano incanalarsi nei binari della normalità. Primo tempo chiuso in vantaggio con un gol di Pablito Rossi e nella ripresa ci pensava Platini, dal dischetto, a raddoppiare, malgrado una mezza prodezza di Terraneo, che respingeva il tiro, ma senza riuscire ad impedire la facile ribattuta di Michel.
Partita chiusa? Macché. A quel punto il Toro, perché quello sì che era vero Toro, non avendo più nulla da perdere, si lanciava a testa bassa ad incornare furiosamente la zebra. In quei tre minuti e quarantun secondi, che passarono nella storia del calcio mondiale e nella leggenda dei derby granata, Dossena, Bonesso e Torrisi trafissero tre volte l’attonita Madama, mandandola al tappeto e di fatto regalando lo scudetto alla Roma.
Peccato che quello stesso giorno la sorella di mia madre celebrasse il venticinquesimo anniversario di matrimonio. Mio padre, non senza difficoltà, mi convinse, diciamo così, a rinunciare alla partita per il pranzo degli zii. La partita la sentii dalla radio della macchina, parcheggiata fuori dal ristorante. Ma non ero l'unico. Un altro amico granata era due macchine più in là, col suo cane, in trepidante ascolto. Alla staffilata di Torrisi che andava a gonfiare per la terza volta in tre minuti la rete bianconera, ci lanciammo uno verso l'altro, in un gioioso abbraccio.
Il suo cane, però, che era totalmente estraneo al nostro tifo calcistico ed ai nostri sfrenati entusiasmi, equivocò sulle mie reali intenzioni ed a rimetterci fu il mio ginocchio sinistro, che per molto tempo portò il segno dei suoi denti. Due belle strisce di pelle di tre centimetri, uno per ogni gol granata, si staccarono dal ginocchio.
Ma mai morso di cane fu meglio accolto. Credo non disinfettai neppure, tanto ero felice.
A distanza di trentasei anni da quel giorno memorabile, il Museo rende onore al regista di quell’impresa leggendaria, ma non solo. Due furono le stagioni granata di Eugenio, che costruì una intelaiatura di tutto riguardo con cui Radice, successivamente, colse un secondo posto che ancor oggi ci brucia come un mancato scudetto.
Alla presenza dell’incontenibile Maria Pia, la moglie, e di Laura e Barbara, figlie di Eugenio, con rispettive famiglie, abbiamo ricordato, e sotto un certo punto di vista riletto, un uomo che ha fatto del calcio la sua missione di vita.
Maria Pia è un torrente in piena, ma la sua alluvione di parole sull’Eugenio privato, quello che non conoscevamo, ci travolge gioiosamente tanto da lasciarci la voglia di ascoltarla ancora, non fosse che ci sono degli orari da rispettare. Dal racconto di lei e delle figlie, esce l'immagine di un uomo buono, che antepose sempre la sua missione alle vicissitudini personali, che seppe essere marito e padre, ma sempre con un occhio di riguardo “ai ragazzi” come chiamava i calciatori che allenava, tanto da instillare il dubbio, nelle figlie, di avere dei fratelli di cui ignoravano l'esistenza.
Un uomo che seppe coniugare la professionalità con l'umanità, come ci racconta con un groppo in gola Ezio Rossi, difensore di quegli anni, proveniente dal vivaio granata, che in un momento difficile della sua vita si sentì dare da Bersellini il consiglio giusto per far sbocciare la sua carriera, ma col tono e lo spirito giusto, più propri del padre che dell'allenatore.
Lo conoscevamo tutti, o almeno credevamo di conoscerlo, come il “sergente di ferro” e invece scopriamo, purtroppo post mortem, di aver avuto a che fare con un “sergente di panna” come lo definisce la moglie.
Bersellini mi deve sei centimetri quadrati di pelle del ginocchio, ma io e tutti i granata, gli dobbiamo la vittoria più leggendaria del calcio mondiale e quindi, a conti fatti, sono ancora io quello in debito e col dispiacere di non poter più incontrare Eugenio per saldare il conto.
Pazienza, sergente buono, accontentati di questa mostra che il nostro Museo ha voluto dedicarti e dal profondo del tuo cuore granata, che non avevi mai voluto esplicitare a nessuno per una via di mezzo tra pudore e correttezza professionale, accettala come un gesto d'amore da tutti noi.