- 22 giugno 2020, 14:48

Giù le mani dall'inno di Mameli

Da qui in avanti, cari signori del vapore calcio, fatelo suonare alla fanfara degli Alpini, che non hanno mai preso stecche

Mezza Italia si è arrabbiata con lui e l'altra mezza si è arrabbiata con quelli che si sono arrabbiati.

Non è uno scioglilingua o un bisticcio di parole, ma quanto successo la scorsa settimana, in occasione della finale di Coppa Italia tra Napoli e Juventus, quando il cantante incaricato dagli organizzatori di cantare l'inno nazionale, prima lo storpiava malamente e poi concludeva la sua esibizione con il pugno chiuso alzato, uno dei gesti di protesta tanto di moda in quest'ultimo periodo, dopo l'uccisione da parte di un poliziotto di Minneapolis di George Floyd, afroamericano, durante un arresto, che ha scatenato proteste feroci, sfociate spesso in violenza, negli Stati Uniti e non solo.

Tanti sono gli interrogativi che immediatamente si pongono. Intanto perché la scelta di questo personaggio, nato a Los Angeles da padre Haitiano e madre Messicana, cittadino statunitense di colore. In Italia, Paese del bel canto, avevamo finito gli artisti? E poi, la scelta di concludere la performance con quel gesto eclatante di protesta, è farina del suo sacco oppure gli è stata suggerita, o peggio, imposta da qualcuno?

Iniziamo dalla parte canora dell'esibizione: posto che, indipendentemente che ti venga richiesto di cantare l’inno di Mameli in una occasione ufficiale davanti a dieci milioni di telespettatori, o che tu debba cantare Romagna mia alla festa della piadina di paese, davanti a pochi astanti, il tuo dovere professionale è di prepararti scrupolosamente per dare il meglio di te, diamo per buono che l'attimo di emozione può cogliere chiunque, o quasi. Magari un artista più smagato sarebbe stato più tranquillo ed avrebbe evitato di incespicare così malamente, ma vabbè, le attenuanti generiche si concedono sempre.

Quello che invece ha fatto storcere il naso, è stata la parte conclusiva, ovvero il pugno chiuso alzato. Non voglio entrare nel merito della protesta, sacrosanta, contro un episodio di brutalità e violenza da lasciare senza parole, come ci ha testimoniato il filmato di questo poliziotto che, scientemente, con assoluto disprezzo della vita umana che si stava spegnendo lentamente sotto di lui, per il suo criminale gesto volontario, non ha alzato il ginocchio dal collo di Floyd, sordo ai suoi lamenti ed alle implorazioni anche degli astanti, uccidendolo. Ma dissento per l'occasione in cui questa protesta è stata compiuta.

Sono fermamente convinto che la persona che, in una occasione ufficiale, viene chiamata a cantare Fratelli d’Italia, o a fare da alfiere portando il vessillo tricolore, non sia lì a titolo personale, ma rappresenti tutti gli italiani. Ripeto, tutti gli italiani, nessuno escluso. E di conseguenza ha dovere di asettica imparzialità, evitando di fare un uso strumentale della sua posizione di preminenza e visibilità, per perorare una causa, qualsiasi essa sia, per quanto sacrosanta possa essere. Nessuno che indossa le vesti di alfiere della Nazione deve strumentalizzare l’inno e la bandiera per usi diversi dal rappresentare l'Italia.

E qui ritorniamo a bomba sul terzo aspetto della questione: chi ha deciso che si profanasse la terzietà di questo momento solenne, facendone un uso distorto e di parte?

Verrebbe fin troppo facile dire che sono le logiche conseguenze di un calcio che, ormai, non è più capace di bastare a se stesso, cercando di sostituire i persi valori morali con valori economici, consistenti in sponsorizzazioni sempre più invadenti e permeanti, sempre più visibili, che riducono i calciatori a variopinti arlecchini che indossano maglie in cui le insegne dello sponsor hanno spazio e visibilità maggiori allo stemma della squadra, che sopperiscono all'assenza di pubblico con messinscene elettroniche asservite alla necessita di dare miglior estetica e rilevanza agli striscioni pubblicitari, che un po' alla volta, nei nostri stadi, stanno sostituendo quelli storici dei tifosi.

Un calcio che, avendo perso i valori morali, cerca di rifarsi una verginità; domenicalmente con una delle tante cause benefiche cui ormai nessuno fa più caso, essendo diventata ormai un'abitudine di far indossare una maglietta ad arbitro e capitani e far tenere uno striscione ai raccattapalle, e nelle occasioni speciali, con questi matrimoni mal riusciti con cause, seppur giuste, ma servite in maniera sbagliata.

Se tanti italiani, sui social, sono insorti verso questa strumentalizzazione del nostro inno, non è per razzismo, ma per dignità e spirito di Patria.

Tant'è che, giusto per fare un esempio a noi vicino, quando sabato sera, dopo il primo goal in campionato dell'era post covid, Nkoulou si è inginocchiato, non solo nessuno ha avuto da ridire, ma tutti hanno approvato, essendo la legittima espressone di un singolo che, dopo un suo atto personale, ha voluto metterci una dedica particolare.

Quindi, da qui in avanti, cari signori del vapore calcio, l'inno nazionale fatelo suonare alla fanfara degli Alpini, che non hanno mai preso stecche, nè in musica nè in carriera, con quasi centocinquant’anni di fedele ed efficiente servizio della Patria, in guerra come in pace e lasciate stare Inno e Tricolore, che, per fortuna, non sono (ancora) vostri, ma di tutta la collettività.

Domenico Beccaria