- 21 aprile 2021, 07:30

L'anticamera della dittatura

Il rinvio a giudizio di Matteo Salvini per i provvedimenti da lui adottati in tema di contrasto all’immigrazione clandestina dovrebbe preoccupare tutti i cittadini

L'anticamera della dittatura

La decisione del tribunale di Palermo, ovvero il rinvio a giudizio di Matteo Salvini per i provvedimenti da lui adottati in tema di contrasto all’immigrazione clandestina, nel periodo in cui era Ministro dell’Interno, dovrebbe essere un segnale molto preoccupante per tutti i cittadini italiani, che siano essi estimatori o detrattori del leader della Lega.

Il compito della magistratura giudicante, infatti, dovrebbe essere quello di esaminare le prove raccolte dall’autorità inquirente, ovvero Polizia, Carabinieri eccetera, eventualmente richiedere un supplemento di istruttoria, se non si ritiene soddisfatta della quantità e della qualità degli elementi raccolti, e poi richiedere o meno il rinvio a giudizio, cui seguirà una sentenza, in base all’esame di essi nel contesto della situazione oggetto di giudizio.

Sebbene sia vero che un rinvio a giudizio non significhi un verdetto di colpevolezza e nemmeno lo prefiguri, altrettanto vero è che chi richiede il rinvio ritiene meritevoli di approfondimento i fatti oggetto dell’istruttoria e le eventuali ipotesi di reato, non escludendo che ve ne possano essere.

questo lascia interdetti i normali cittadini, digiuni di raffinatezze e fini disquisizioni di lana caprina a sfondo legale, che si domandano perché in tre situazioni simili, anche s non perfettamente sovrapponibili, si sia assistito a scenari totalmente differenti. In un caso, il senato ha negato l’autorizzazione a procedere, negli altri due l’ha concessa e qui i giudici non centrano. Sono i politici che, in base a loro valutazioni, più o meno condivisibili, sebbene difficilmente afferrabili per il popolino, hanno fatto le loro scelte. Negli altri due casi, invece, nella stessa splendida isola, vediamo che i magistrati catanesi chiedono il non luogo a procedere (vedremo come finirà) mentre quelli palermitani invocano (ed ottengono) il rinvio a giudizio. Orbene, che la rivalità tra i due poli geografici dell’isola sia acerrima e storica, è noto, ma una antitesi così netta è quantomeno sorprendente e di difficile comprensione, ai più.

Senza scendere troppo nei dettagli di quanto sia aberrante e distorto che la magistratura si senta in dovere di sindacare, anzi, giudicare e magari anche condannare le decisioni politiche di un deputato, un senatore, un ministro, che in tanti e più autorevoli di me l’hanno già fatto, penso a quali invece siano le implicazioni, palesi e celate, di questo passo.

Partendo dal teorema Palamara, che è chiaramente emerso dalle intercettazioni delle sue telefonate, ovvero “Salvini ha ragione, sui migranti, ma dobbiamo comunque colpirlo”, che in contesti diversi può essere applicato a chiunque e per qualsiasi ambito, si prosegue col sospetto che magari qualche magistrato possa cadere nella tentazione di travisare il suo lavoro, non esaminando gli elementi a carico, ma anche a discarico dell’imputato per capire se abbia commesso un reato, ma al contrario, cercando un reato da cucire addosso all’imputato per poterlo condannare.

E se un personaggio pubblico del calibro di Salvini che, piaccia o no, ha il voto di un elettore su quattro e le simpatie di almeno un’altro, secondo quello che ci dicono sia li risultati delle ultime elezioni che i sondaggi per le prossime, e quindi avrebbe la maggioranza dei voti, rischia di avere problemi seri, per evitare i quali dovrà far ricorso alle capacità (ed ai costi) dei migliori avvocati, figurarsi se a restare incastrato nel cosiddetto tritacarne giudiziario è un semplice cittadino, che non ha né i soldi per pagare salate parcelle e spese legali, né può godere delle attenzioni dei media e della solidarietà e del sostegno del mondo politico amico: sarebbe un massacro.

Alla luce di questo primo pericolosissimo passo, in cui il magistrato avoca a se prerogative di giudizio sull’operato politico di un ministro eletto dai cittadini, e che quindi solo a loro dovrebbe renderne conto, nulla ci impedisce di pensare che i passi in questa direzione possano proseguire, sia verso nemici politici, che economico imprenditoriali, condizionandone l’operato e l’utilizzo delle risorse.

E via via, scendendo la scala sociale, arrivare fino al semplice cittadino che, esercitando il suo diritto costituzionalmente garantito di libero pensiero ed espressione, può entrare in rotta di collisione col pensiero dominante di certa magistratura politicizzata o dei suoi referenti politici.

Nascondere la testa nella sabbia oggi, davanti a certi episodi, pensando che “chi se ne frega di Salvini, io non voto per lui”, oppure “se l’è andata a cercare, chi si crede di essere” o peggio, godere che l’avversario politico, che non si riesce a battere nelle urne, sia trascinato nel fango delle sommaria giustizia politica, è un atto di grande miopia.

Credere che “a me non capiterà mai”, è il modo migliore di creare i presupposti perché invece capiti per davvero.

Quando i padri costituenti pensarono alla separazione dei poteri, volevano proprio impedire quello che oggi, sotto gli occhi indolenti di tanti, si sta concretizzando: un potere che cerca di scavalcare ed annullare l’altro, ovvero l’anticamera della dittatura.

Domenico Beccaria

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