Dietro un marchio c'è sempre una storia e "Beltepà" non fa eccezione.
Nata dall'idea della torinese Antonella Alotto, non è solo un brand d'abbigliamento, è un progetto che unisce donne di mondi diversi: quelle italiane e a quelle uzbeke.
E' il 2014 quando Antonella segue il marito in Uzbekistan, nella città di Tashkent, insieme ai due figli più piccoli. Un mondo completamente nuovo e sconosciuto dove lavora come insegnante di italiano. "Lì ho iniziato a conoscere le ragazze e i ragazzi del paese e ho incontrato questa donna, Nigora".
Nigora. A lei è dedicato il nome del brand, Beltepà. "E' un quartiere poverissimo di Tashkent. Nigora viveva lì, per noi è un modo di omaggiarla e ricordarla".
"Ora è venuta a mancare, ma è lei che ci ha introdotto a questo mondo di donne che lavorano la seta attraverso la tecnica dell'ikat, diventata da poco patrimonio dell'Unesco".
Grazie a Nigora infatti, Antonella ha potuto conoscere il laboratorio di Margilan, città della Valle della Ferghana, nell'est dell’Uzbekistan, dove ha origine questa produzione. All'interno ci lavorano una cinquantina di donne. Si trovano qui ogni giorno, tessono, cantano, si occupano dei bambini, escono dalla loro routine casalinga.
"La loro è un'attività che si tramandano di generazione in generazione, è incredibile vederle lavorare in questi capannoni dove si trovavano come una comunità. Lì ho capito di poter avviare questo progetto, in modo che potesse valorizzarle".
"Insieme a loro e alle mie due figlie, Cecilia e Giulia, abbiamo creato questo brand che unisce due mondi di donne. Lavoriamo affinché la tradizione dell'ikat non sparisca".
Una tecnica molto particolare per produrre un tessuto che la popolazione uzbeca utilizza nella tradizione per per le cerimonie, ma che Beltepà porta nel mondo con modelli semplicissimi, in grado di esaltare il tessuto, ma sia adatto a tutti i giorni.
"La lavorazione dell'ikat inizia nelle case di queste donne, dove vengono allevati i bachi da seta insieme alle foglie di gelso. Tutta la famiglia partecipa all’attività e alle 30 fasi per ottenere il filo che viene poi raggruppato. La filiera prosegue con la lavorazione del tessuto nei laboratori attraverso un telaio di legno che permette a ciascuna donna di realizzare un metro di stoffa al giorno".
Un metodo lungo, complesso e corale. "E' un tessuto alto circa 40 cm. Per ottenere il materiale per un cappotto occorrono 12 metri di stoffa (e cioè 12 giorni, ndr)."
Una volta arrivato in Italia il resto del lavoro passa nelle mani di Cecilia che si occupa del design finale dei vestiti, mentre Giulia pensa alla comunicazione del brand in tutto il mondo.
Il progetto, che si è concretizzato nel 2018, con il covid ha subito una battuta d'arresto. "La pandemia ha fermato la lavorazione in laboratorio, ma la settimana scorsa sono tornata laggiù e devo dire che hanno ripreso bene".
Oggi, il team italo-uzbeco conta vendite internazionali e pensa a espandersi. "Abbiamo uno showroom in piazza Vittorio a Torino, principalmente rivolto ai negozi. Adesso puntiamo soprattutto al mercato americano che ha risposto bene. Sono stati due anni difficili, ma siamo pronte a ripartire".
Al Circolo dei Lettori, si potrà conoscere il progetto venerdì 18 novembre alle ore 18 "Racconteremo la nostra avventura e dell’Uzbekistan e del prezioso lavoro di queste donne".