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Cultura e spettacoli | 14 novembre 2023, 10:35

Torino chiama Detroit, allo Spazio211 i “nostri” The Wends aprono i cult made in USA Protomartyr

C'è grande attesa per una delle band più amate della scena alternativa mondiale, ma in apertura spazio alla contaminazione tra indie-rock e post-punk del quartetto locale

the wends

Allo Spazio211 i “nostri” The Wends aprono i cult made in USA Protomartyr

Quella dello Spazio211 si preannuncia essere una grande serata: sul palco di via Cigna 211 a Torino, per un altro appuntamento della rassegna Tilt, saliranno infatti i Protomartyr.

La band di Detroit, una delle più amate della scena musicale alternativa statunitense e mondiale, presenterà i brani della propria ultradecennale carriera culminata nel sesto album “Formal growth in the desert (uscito il 2 giugno scorso per la Domino Records), descritto dagli organizzatori come “un vero e proprio testamento di 12 canzoni che inneggiano ad andare avanti con la vita, anche quando sembra incredibilmente difficile” e musicalmente parlando come “un film narrativo”.

Torino chiama Detroit

Quella dello Spazio 211 sarà anche la serata in cui Torino incontrerà Detroit, perché ad aprire i Protomartyr sarà la contaminazione tra indie-rock e post-punk dei The Wends, autori dell'album “It's here where you fall” (uscito il 28 ottobre 2022 per We Were Never Being Boring e per Subjangle) e freschi di importanti date internazionali negli Stati Uniti (al festival SXWS South by Southwest di Austin) e nel Regno Unito (al Cavern Club di Liverpool). A poche ore dal grande evento, abbiamo intervistato il chitarrista Hamilton Santià, che ci ha svelato tutti i retroscena del credo artistico dei The Wends.

Come e quando sono nati i The Wends?

Siamo nati nel 2019 recuperando un vecchio discorso tra me e Michele Sarda, il cantante: noi due, infatti, tra il 2004 e il 2007 avevamo già suonato insieme portando in città un po' di musica alternativa suonata prevalentemente con le chitarre; il tutto è avvenuto in un periodo di grande fermento, in cui molte band si stavano riaffacciando a questo tipo di musica. Dopodiché ci siamo dati da fare per trovare la sezione ritmica e da lì abbiamo conosciuto prima il batterista Francesco Musso, protagonista di moltissime band locali con cui ci siamo piaciuti fin da subito, e successivamente il bassista Mariano Zaffarano, grandissimo musicista presentato da un amico.

Prima di chiamarvi The Wends, però, vi chiamavate Smile: perché questo cambio di nome?

Anche se, metaforicamente parlando, giochiamo in un campionato diverso, l'omonimo progetto parallelo di un certo Thom Yorke dei Radiohead ci ha convinti a non intestardirci sul nome: non si tratta di uno che passa di lì per caso e gli algoritmi dei motori di ricerca, in casi come questo, purtroppo non danno una mano. La parola Wends, invece, l'abbiamo trovata un po' per caso sul web: si tratta di un neologismo creato dalla sottocultura di internet e rappresenta una sensazione di insoddisfazione per un evento, come ad esempio un concerto, che hai preparato o hai aspettato tanto e che non va come vorresti o che non riesci a goderti in pieno.

Come genere venite collocati nell'indie rock con “punte” di post-punk, ma voi come vi definireste?

La questione è un più complessa: mentre agli inizi, infatti, potevamo ricordare i primi R.E.M. o gli Smiths, aderendo al genere storicamente definito come “jangle pop”, nel corso del tempo e seguendo le evoluzioni in sala prove abbiamo cercato di cogliere sentimenti e sensazioni che girano intorno a un suono più oscuro, compresso e meno arioso, quasi cupo. Già registrando il nuovo disco si sono visti diversi elementi di transizione e al momento stiamo lavorando su questo tipo di materiale aperto a influenze post-punk e new wave: materialmente è riconducibile agli Psychedelic Furs, agli Editors o agli Interpol, ma anche a band più “cariche” dal vivo come gli Hȕsker Dȕ. Dopo i concerti qualcuno ci ha paragonato anche agli Strokes, anche se in realtà non li sento moltissimo.

Perché avete scelto di scrivere testi in inglese?

Perché il 95% della musica con cui siamo cresciuti è in inglese: il nostro obiettivo, a proposito, è sempre stato quello di toglierci delle soddisfazioni mettendo i nostri pezzi alla prova delle orecchie di chi con questa musica ci è nato. La possibilità di suonare ad Austin e a Liverpool di fronte a un pubblico ambizioso che ha saputo apprezzarci, in questo senso, ci ha permesso di capire di poter superare i confini dando un senso alle nostre scelte.

Di cosa parlano?

I nostri testi riflettono su di noi, sulle ansie di persone non più giovanissime che si trovano ad affrontare l'alienazione quotidiana data anche da lavori routinari: né più e né meno di ciò che succede quando i sogni adolescenziali finiscono. Un altro tema a cui ci stiamo affacciando è quello della paura della morte.

Che effetto fa suonare prima di una band come i Protomartyr?

Sarà molto bello essere sullo stesso palco di una band così importante con cui condividiamo sia l'approccio musicale che testuale: pur arrivando dal Michigan, terra molto particolare, il loro sguardo è molto europeo e per questo riteniamo sia una grande opportunità. Il nostro obiettivo, in definitiva, è quello di dimostrare di essere una band in grado di dialogare con il contemporaneo rifacendosi a una tradizione musicale precisa, che arriva da lontano ma che può ancora andare molto lontano.

Come sarà il vostro live?

Voglio fare un annuncio per quelli che hanno già avuto modo di sentirci e vederci in concerto: sarà qualcosa di completamente diverso a quello a cui eravate abituati. La direzione musicale che stiamo prendendo si sentirà molto e sarà l'occasione giusta per capire se la cosa ci farà mantenere la nostra identità e la nostra personalità; apprezziamo molto, infine, la scelta fatta da Spazio211 di privilegiare il nostro territorio per aprire un concerto così atteso, come già avvenuto qualche settimana fa con i Low Standars, High Five a supporto degli Algiers.

Marco Berton

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