Buongiorno, amici e bentrovati, #poetrylovers!
A-riéccoci: settembre is back again.
Sono l’unica ad avere l’impressione che -gira e rigira- ci si trovi sempre qui, al punto d’inizio, fermi ai blocchi di partenza, con i muscoli tesi e i nervi caldi, pronti a scattare in direzione routine? Che poi, a pensarci bene, questa meta somiglia più a un ritorno.
Evitiamo le frasi fatte e i buoni propositi, oggi. Siete d’accordo? Bypassiamo i soliti discorsi motivazionali (così fastidiosi!) e crogioliamoci ancora un po’ nella sensazione di avere tempo, luce, luoghi da scoprire. Perché settembre, in fondo, oltre ad ospitare il mio natale è scrigno di dolci malinconie, delle più ferventi aspettative, diviso tra calma e caos, lentezza ed efficienza: un tempo diviso, combattuto, desideroso di quotidianità mentre ancora svuota le valigie dell’estate appena trascorsa. Un mese autentico, “umano”.
Perciò, che fare? Come impostare il nuovo articolo della stagione 2025-2026? Facile! Dedicandolo al racconto di una mia personale esperienza, una piccola chicca che spero apprezzerete e visiterete presto. Ready, set, go.
28 giugno 2025. Di ritorno da un evento poetico presso la Fondazione Amendola (a cavallo tra quartiere Aurora e Barriera di Milano), io e mio marito decidiamo di cenare in zona, prima di rientrare a casa. Così sbircio su una famosa app di prenotazione e scovo, nella lista, un nome che da subito accende qualcosa e attira i miei passi: KARIBU Open. Sulla pagina profilo si presenta come ristorante africano, con opzioni vegetariane e vegane. Top, decidiamo di provarlo.
Una volta entrati, veniamo accolti da un cordialissimo responsabile di sala, che ci accompagna al tavolo e spiega come, inquadrando il QR code, sia possibile accedere al menù. Insomma, la prassi. Poi, cavalcando un’abitudine (per non dire ossessione) tipicamente mia, curiosa come una scimmia, comincio a gironzolare per il locale osservando ogni dettaglio, mi alzo per guardare le foto e leggere alcune informazioni orgogliosamente incorniciate al muro.
Cosa scopro? Cose belle, bellissime. Ve le racconto, ve le racconto… niente ansia! Facendomi aiutare dal loro intrigante sito internet (https://karibuopen.com/) e parafrasandone gli aspetti salienti.
“Karibu Open è una cooperativa di catering sostenibile, che si pone l’obiettivo primario di favorire e (ri)accompagnare l’inserimento lavorativo dei giovani migranti sul territorio torinese.
La convinzione (correttissima) è che per raggiungere un’integrazione concreta ed efficace, essa debba nascere e svilupparsi durante l’intero processo: in ambito lavorativo, all’interno di un’equipe e di una cucina professionale, in contesti sociali familiari, con fornitori e clienti finali ed ovviamente a tavola, nella creazione di menù variopinti -identitari- che sappiano rappresentare al meglio l’eterogenea ricchezza del progetto stesso.
La Sostenibilità è il valore che scelgono e sostengono come guida all’azione, come pure il limite entro il quale si decide ogni passaggio. Essa si snoda in tre direzioni: 1. Sostenibilità Ambientale -nella scelta attenta di materie prime di stagione, nella creazione di una lista di fornitori selezionati e nell’attenzione alla minimizzazione dell’uso di imballaggi e plastica; 2. Sostenibilità Sociale -nell’inclusione operativa di soggetti in difficoltà e nella sensibilizzazione verso un’alimentazione più empatica e consapevole; 3. Sostenibilità Economica -nell’impegno a favorire crescita e welfare (socio-economico) personale”.
Costruire un simbolico ponte tra passato e futuro fondato sul lavoro (vi ricorda niente?) e sul rispetto, che PERSONE prima di tutto e soltanto dopo migranti possano attraversare per trovare conoscenza, strumenti, pazienza, progettualità, indipendenza, una reale possibilità. Così da intraprendere percorsi di crescita umana e professionale, così da occupare un proprio spazio, attivamente. Consapevoli di essere preziosi e valorizzati, figli di periodo storico in cui la narrazione dominante sembra urlare “Vinca il più forte! Vinca il più intollerante!”, contro ogni logica d’amore. Karibu Open ha captato il bisogno della comunità, ne ha compreso la portata e -fortunatamente- interpretato una possibile risposta, unendo il pragmatismo alla dignità, a doppio filo. Si sa, già lo ripetevano i bisnonni dei nostri bisnonni: il lavoro nobilita l’uomo. Sempre.
Il punto di forza, a mio avviso, è potente quanto semplice. Esattamente come per i passeggeri di un treno -in cui cambiano estrazione, età, storia, educazione, cultura- ciò che conta è condividere il viaggio, poco importa se per intero o soltanto in parte. Per il tempo di quel tragitto, benché assorti nei propri pensieri, i pendolari condivideranno un pezzo di vita. Hanno in comune qualcosa di unico e puro, oggettivo: la destinazione. Forse non sarà la finale, forse si limiterà a una tappa intermedia, tuttavia è esattamente dove stanno andando; insieme, adesso. Allo stesso modo, grazie a Karibu Open vissuti difficili -spesso antitetici tra loro- si incrociano e arricchiscono a vicenda. Scevra da giudizi morali, la cooperativa s’impegna a migliorare il presente di uomini e donne finalmente liberi dalle catene (della famiglia, degli errori, della giustizia, della paura) e desiderosi di far parte di una società loro quanto nostra.
La poesia di oggi è affidata alla penna evocatrice di Wole Soyinka, pseudonimo di Akinwande Oluwole Soyinka (Abeokuta, 13 luglio 1934): drammaturgo, poeta, scrittore e saggista nigeriano Premio Nobel per la letteratura nel 1986. È considerato uno dei più importanti esponenti della letteratura dell’Africa sub-sahariana, nonché il maggior drammaturgo africano. Perseguitato, imprigionato, esiliato; il suo coraggio dimora in ogni verso.
VIAGGIO
Non penso mai di essere arrivato, anche se sono
alla fine del viaggio. Ho preso una strada lontana
dalle vette ma fatta di domande e che mi porta giù
verso una casa, a quell’altra terra. So che la mia carne
intaccata dai morsi è scampata alla frenesia
dei pesci dentro la ruggine delle chiglie…
Ma me li sono lasciati dietro nel mio cammino
e così è andata col vino e col pane
Non li ho mai divisi con la sconfitta né con la fame
Me li sono lasciati dietro nel mio cammino.
Non penso mai di essere arrivato, anche se un segno
d’amore e di benvenuto mi attraggono verso casa
Gli usurpatori brindano nella mia coppa
ogni banchetto un’ultima cena
Questo verso, in particolare:
“Non penso mai di essere arrivato”
Forse, sentire il viaggio dentro di sé, percepirlo come fedele compagno, potrebbe essere la chiave per ricordare che nel nostro vagare non siamo mai soli. Se ne faccia uso per fuggire dal dolore, dalla povertà o dalla noia, al nostro fianco troveremo sempre Qualcuno. Diverso, certo, eppure più simile di quanto pensiamo. Guardiamolo, la prossima volta. Con rispetto. Potrebbe essere proprio lui un giorno, in una calda sera d’estate, ad accoglierci e farci sentire a casa. Come già succede in Corso Novara 79.
Pensateci su.
Alla prossima