Cultura e spettacoli - 14 agosto 2020, 15:30

"Mia amante e non madre né sorella": ricordando la Torino di Pavese a 70 anni dalla morte

Lo scrittore abitò in un alloggio di via Lamarmora 35 dal 1930 al 1950, anno in cui si tolse la vita all'Albergo Roma. Nel capoluogo frequentò il prestigioso liceo "D'Azeglio" ed entrò nella cerchia di intellettuali antifascisti riuniti attorno a Leone Ginzburg. Contribuì alla nascita della casa editrice Einaudi e chiese a Fernanda Pivano di sposarlo

Città della fantasticheria, “per la sua aristocratica compiutezza composta di elementi nuovi e antichi”; città della passione, della regola e dell’ironia; “città esemplare, per la sua pacatezza ricca di tumulto”. Così Cesare Pavese, in una pagina del suo diario, Il mestiere di vivere, datata 17 novembre 1935, descrive Torino, culla d’adozione più simile in realtà a un talamo occulto e sensuale, “amante e non madre né sorella”, che l’ha accolto in tenera età dopo il trasferimento da Santo Stefano Belbo.

È il tempo caldo della rivolta intellettuale antifascista, tra gli albori della casa editrice Einaudi e il prolifico e illuminato circolo formato dagli ex studenti del professor Augusto Monti, con al centro Leone Ginzburg. È l’anno della condanna, per lo scrittore, a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poiché trovato in possesso di lettere “sovversive” destinate all’amata donna dalla voce rauca, militante tra le file clandestine del Partito comunista. Ma, soprattutto, è il periodo in cui ritorna a farsi sentire, martellante nella testa, quel “vizio assurdo” che, quindici anni dopo, spingerà Pavese a mettere il punto finale alla sua ultima opera, quella esistenziale, vergando con una dedica a un auspicio - “non fate troppi pettegolezzi” - il frontespizio del suo libro più riuscito, sul comodino di una camera dell’Albergo Roma.

Nel settantesimo anniversario della morte, ripercorrere la Torino di Pavese significa affondare il passo in una storia umana prima ancora che letteraria, percorsa da un intellettuale sì schivo e riservato, eppure fondamentale per la crescita culturale di un Paese mutante e resistente, nelle campagne contadine così come tra le fabbriche operaie. Dall’Italia che negli anni Trenta scopriva la cruda, arsa e violenta cultura statunitense, influente ai massimi livelli tra scrittori e registi, alla ricostruzione sulle macerie del dopoguerra, in un capoluogo colpito dalle bombe eppure orgoglioso di aver dato i natali o l’accoglienza alle più alte sfere del pensiero antifascista e partigiano. 

L’epifania del capoluogo, per l’autore, avviene negli ultimi anni delle scuole elementari, quando viene iscritto all’Istituto privato “Trombetta” di via Garibaldi. Ma sarà l’ingresso al liceo classico “Massimo D’Azeglio”, nell’anno 1923-24, il momento di svolta cruciale. È l’avvio della sua formazione intellettuale più composita e articolata, sotto l’ala di Monti, docente di latino e italiano, spesso dipinto come “orco” per la sua severità autoritaria, eppure fin da subito acutamente sensibile alle doti del giovane Pavese, seduto al primo banco e innamorato del verso tragico di Vittorio Alfieri, “odiator di tiranni”. 

Gli anni giovanili lo scrittore li passa in una casa di periferia e, nel tempo libero, ama perdersi in lunghe peregrinazioni sulle rive del Sangone, che un po’ gli ricordano la spensieratezza della vita in collina, nelle Langhe. “Il caso mi ha fatto cominciare e finire Lavorare Stanca con poesie su Torino – più precisamente, su Torino come luogo da cui si torna, e su Torino luogo dove si tornerà”, annoterà nel 1936 sul suo diario, suggellando un legame inscindibile tra campi e strade urbane che diventa metafora della ricerca incessante del mito, del simbolo, all’interno di quel ciclo chiamato vita. “Il paese diventa la città, la natura diventa la vita umana, il ragazzo diventa uomo”. 

Adolescente, avverte impetuoso il richiamo dei piaceri sensuali e resta ammaliato da figure femminili che non sono più le pudiche bambine osservate in silenzio tra i banchi di scuola. Con i compagni si reca spesso ai caffè-concerto della città, tra cui spicca La Meridiana, nell'attuale Galleria San Federico. Qui nota una ballerina di fila e ne resta incantato. Dopo qualche maldestro tentativo, finalmente le dà un appuntamento, per la sera seguente, alle sei in punto, all'uscita del teatro. Una scena evocativa, da film, cui non è rimasto indifferente Francesco De Gregori, tanto da cantarla nella sua celeberrima Alice: "E Cesare perduto nella pioggia/sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina/E rimane lì a bagnarsi ancora un po'/E il tram di mezzanotte se ne va/Ma tutto questo Alice non lo sa". L'aspettò infatti invano, in mezzo al diluvio, mentre lei da tempo se n'era andata da un'uscita sul retro, sottobraccio a un altro uomo. 

Ma, come ricorda Davide Lajolo nella sua biografia Il "vizio assurdo". Storia di Cesare Pavese, ristampata da Minimun Fax nel luglio 2020, per sfuggire al tormento dell'insoddisfazione e al tedio dell'infelicità, più di tutto il resto, Pavese ama il fiume. “Tutti gli amici sanno che è il suo unico hobby. Non ama gli sport, la montagna, la filatelia, il gioco delle carte, ama soltanto nuotare e remare sul fiume. Quasi ogni giorno parte, prendendo con un gruppo di amici il tram numero 7, che lo porta nei pressi della Fiat Lingotto. Poi proseguono a piedi per una strada in discesa, quella che ha sulla destra il canile municipale e che s’apre subito sulla campagna”. Su quello stesso specchio d’acqua, tenterà di ritrovare la medesima adrenalina marittima del Moby Dick di Herman Melville che traduce alacremente, il suo romanzo preferito. 

Passeggiando sul Lungo Po, davanti al Monte dei Cappuccini. Imbrunire nebbioso, le ville scompaiono, restano i dorsi scuri, irsuti dei colli, selvaggi, sfumati. A che serve questa bellezza – che cosa significa, almeno?”. Così in una pagina di diario del 1° dicembre 1949. Sono spesso le immagini più malinconiche e desolate a risvegliare in Pavese la musa ispiratrice, facendogli riversare sul foglio bianco vividi quadri narrativi dove uomini solitari (suoi alter ego) si aggirano per le strade anelanti e velleitari. 

Come in uno dei racconti di Feria d’agosto, pubblicato nel 1946, dopo che la guerra ha devastato anche l’abitazione di via Lamarmora 35 che lo scrittore santostefanese condivideva con la sorella Maria e il marito. “La città semivuota mi pareva deserta. Il gioco dell’ombra e del sole l’animava tanto, ch’era bello fermarsi e guardare da una finestra sul cielo e su un ciottolato. Sapere che oltre alla luce e all’ombra fresca c’era qualcosa che mi stava a cuore e rinasceva col sole e affrettava la notte, dava un senso a ogni incontro che avvenisse su quelle strade. C’erano gli alberi che bevevano il sole, c’erano i gridi delle donne, c’era un grande silenzio. Uscivo dalla stanza presentendo altri sentori e la frescura della sera. Potevo guardare e amare ogni cosa”.

E la ricerca incessante d’amore trova un nuovo, invitante e confortevole approdo alla fine degli anni Quaranta, quando Pavese prende a frequentare una sua ex allieva, la giovane studentessa Fernanda Pivano, colei che porterà il sogno americano in Italia con i suoi viaggi, i suoi incontri, le sue traduzioni. Ogni mattina - narra ancora Lajolo - la va ad aspettare in viale Stupinigi, si siede accanto a lei su una panchina e le legge le poesie di Montale e Ungaretti, talvolta anche le sue. Si danno del lei, per cinque anni lui cerca di conquistarla intellettualmente, non le chiede mai un bacio ma sì di sposarlo. Ma lei dirà di no, pur rimanendogli legata per tutti i restanti anni della sua vita. 

Eppure, quando la presenza della donna torna a farsi limpida e fervida accanto a lui, Pavese riscopre anche la passione politica, in genere sempre sopita, partecipata passivamente, da uditore. Viene accolto nella cellula speciale di intellettuali e dirigenti comunisti che tiene le riunioni tutte le domeniche mattina in casa Pajetta, a Borgo San Paolo, quartiere rosso e militante. Un piccolo mondo che non ritroverà più, dopo l’8 settembre ’43, quando tornerà a Torino da Roma e non potrà più ricongiungersi agli amici di un tempo, tutti partiti per arruolarsi tra le file partigiane, sulle colline. 

Straducce, cortili, comignoli. Visto di qui sembra un mare di stelle. Eppure quand’uno c’è in mezzo non se n’accorge”. Così appare dall’alto la città alla “gioventù bruciata” protagonista del Diavolo sulle colline, romanzo breve racchiuso nel volume La bella estate, vincitore del Premio Strega nel 1950, poche settimane prima della morte.

La stessa Torino che, premonitrice, cullerà nel suo trapasso una delle anime perse di Tra donne sole, altro racconto lungo del libro, dove protagonista è Clelia, imprenditrice indipendente, emancipata e autonoma, tornata al nord dopo un lungo soggiorno romano con l’intento di aprire un atelier di moda. Romanzo esistenziale non a caso carissimo a Michelangelo Antonioni, che nel ’55 ne trasse il film Le amiche. “Andavamo forte, sotto gli alberi alti. Quando la salita si raddolcì, cominciammo a vedere dall’alto le colline, la valle, la pianura di Torino. Non ero mai stata a Superga. Non sapevo che fosse così alto. Certe sere, dai ponti di Po, la si vedeva nera e ingioiellata di una corona di luci, una collana gettata per storto sulle spalle di una bella signora. Ma adesso era mattino, era fresco e c’era un sole d’aprile che riempiva tutto il cielo”.

Sarà il personaggio di Rosetta - soffocata dall’ipocrisia asfissiante della fatua borghesia sabauda - a espiare innocente la condanna al “vizio assurdo”, in una stanza presa in affitto, prima che Pavese prenda finalmente il coraggio per compiere l’analogo gesto. "Non pareva nemmeno morta. Soltanto un gonfiore alle labbra, come fosse imbronciata. Il curioso era stata l'idea di affittare uno studio da pittore, farci portare una poltrona, nient'altro, e morire così davanti alla finestra che guardava Superga. Un gatto l'aveva tradita - era nella stanza con lei, e il giorno dopo, miagolando e graffiando la porta, s'era fatto aprire”. 

Manuela Marascio