“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Tra le tante sentenze epigrafiche lasciate a imperitura memoria dai più grandi scrittori di sempre, certamente quella impressa da Cesare Pavese sul suo libro “meglio riuscito”, com’ebbe a definirlo, prima di morire, non ha mai perso, in settant’anni, un fascino del tutto peculiare. Per diverse ragioni.
In primis, la sua potente eco esistenziale che riverbera tutte le angosce, le contraddizioni e le inettitudini di un uomo condannato dalla nascita alla solitudine poetica. Poi, le contingenze dell’atto, l’estremo “gesto” annotato furiosamente tra le pagine dei suoi diari, la persecuzione dolceamara del “vizio assurdo” che trova compimento a due passi dalla stazione ferroviaria che lo collegava al luogo natio, Santo Stefano Belbo. Infine, l’ineguagliabile e tragico coup de théâtre a soli due mesi dai festeggiamenti per il Premio Strega a Roma, nello sfarzo caotico di quel bel mondo capitolino da cui il riservatissimo e taciturno autore della Bella estate non si fece mai fagocitare.
Oggi, 27 agosto 2020, si celebra il settantenario della sua morte, senza proclami altisonanti, anzi, con una commemorazione più intimistica che sbandierata, quasi a voler preservare nel ricordo privato un suicidio che, nell’Italia del 1950, suscitò alternativamente scandalo, imbarazzo, sgomento.
Il luogo prescelto fu l’Hotel Roma, in piazza Carlo Felice, a Torino. Più precisamente, la stanza numero 346, rimasta intatta da allora, come se il tempo si fosse cristallizzato nell’istante in cui il corpo senza vita dello scrittore venne ritrovato dal personale alberghiero.
Il sabato del 26 agosto Pavese chiese alla sorella Maria, con cui divideva un alloggio in via Lamarmora 35, di preparagli la solita valigetta usata per i viaggi brevi, come ricorda Davide Lajolo nella biografia Il vizio assurdo. Storia di Cesare Pavese (Minimum Classics, 2020). Un’azione che non destò meraviglia alcuna, dato che ogni fine settimana lo scrittore faceva una gita fuori Torino con amici. Ma “quel giorno si reca in via Valdocco - ricorda Lajolo - alla redazione dell’Unità [con cui collaborava, ndr]. Trova Paolo Spriano, un giovane amico, e senza dirgli altro gli chiede soltanto se nell’archivio del giornale esiste una sua fotografia”. Scelse quella dove il suo volto appariva più triste e se ne andò, sorridendo.
Nella borsa aveva messo una copia dei Dialoghi con Leucò. Salito sul tram diretto per la stazione, invece di recarsi verso i binari, si fermò in albergo, chiedendo una camera provvista di telefono. Aveva bisogno di trascorrere quelle ore in compagnia, purché femminile. “Una donna che non sia una stupida, presto o tardi incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre”, aveva scritto in uno dei suoi tanti momenti di cupa arrendevolezza al limite della misoginia.
Fece molte chiamate, quel giorno, chiuso tra quattro mura. Al centralino passò anche la voce di Fernanda Pivano, sua ex allieva divenuta grandissima amica e confidente, nonché amore platonico “della maturità”, poi sposatasi con un altro uomo. “Da quella stanza non scenderà più vivo”, scrive Lajolo nella biografia. Non essendosi presentato né a pranzo né a cena, un cameriere, verso le 20.30 di domenica 27, si insospettì e prese a bussare alla porta parecchie volte. Nessuna risposta.
Sul comodino giacevano abbandonate sedici bustine aperte di sonniferi. Il cadavere sul letto, composto, con senza giacca né scarpe. Accanto, i Dialoghi (oggi custoditi nel museo della Fondazione Cesare Pavese) con la celeberrima frase scritta a mano sulla prima pagina nelle ore precedenti.
Una scelta non casuale, quella di portare con sé quel volume, tra le tante opere, nel suo ultimo viaggio. Sibillino e vorticoso, dialettico e suadente, con una prosa dialogica tendente al lirismo, che solo superficialmente profuma di leopardiane Operette morali, il libro contiene “la potenza di una parola che sgorga da un sapere segreto e di quel sapere riesce a comunicare la lezione solo ambiguamente, gelosamente, in forma sghemba, tra continui rischi d’evanescenza, come l’enigma di un oracolo”, come scrive Nicola Gardini nell’introduzione ai Dialoghi ripubblicati quest’anno da Einaudi in occasione del settantenario.
Forse un ultimo tentativo, per Pavese, di concludere la spasmodica ricerca del mito con l’unica azione che nettamente recide il legame perduto tra l’uomo e la divinità: la facoltà di perire e dichiararsi fragilmente caduchi.
L’altro “mito”, invece, quello costruito attorno all’infelice vita dello scrittore langarolo, sarebbe comunque troppo semplicistico da ridurre alle sole delusioni amorose. Che sicuramente sono state tante, fin dalle prime cotte adolescenziali, passando per le ballerine dei café-chantant, le dure militanti antifasciste, le studiose intellettuali rapite dalla sua erudizione, le dive del cinema hollywoodiano in villeggiatura oltreoceano. Perché, se è vero che Pavese, in quelle ultime, buie settimane dell’estate 1950, fece i conti con un “viso morto” riemerso nello specchio, un “labbro chiuso” da ascoltare prima di scendere “nel gorgo muti”, le dedicataria della splendida raccolta poetica Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è solo l’ultimo carta appoggiata sulla sommità di un castello dall’equilibrio già instabile.
Composte tra l’11 marzo e l’11 aprile 1950, le dieci liriche - otto in italiano e due in inglese - dedicate all’attrice statunitense Constance Dowling, e ritrovate in un cassetto del suo ufficio all’Einaudi dopo la morte, come ha descritto l’amico fraterno di Pavese Massimo Mila, “trascendono l’antico limite della confessione e dello sfogo nella sottile sapienza di un linguaggio poetico che si fa numero, immagine, valore musicale”. Ed ecco che nel motivo del suicidio si intrecciano la fuga e il sacrificio di tutta una vita. La rinuncia all’attivismo, la scelta di porsi come “contemplatore” distaccato eppure profondamente sofferente, il riparo tra le colline lontano dalla guerra partigiana, la dispersione nella carnalità anelando invece al calore di una moglie. Lo ammette Pavese stesso: “Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, amore, disillusione, destino, morte”.
Diverse le iniziative promosse in questi mesi per il settantenario della scomparsa dello scrittore.
Oltre alle già ricordate nuove edizioni Einaudi, è recentissima la pubblicazione del suo Taccuino segreto per Aragno, curato da Francesca Belviso e corredato da un’introduzione dello storico della cultura Angelo d’Orsi. Controverso e contestato fin dalle prime segnalazioni nel 1990, è arricchito della testimonianza inedita del suo scopritore, Lorenzo Mondo. Un’operazione “doverosa e necessaria”, sottolinea l’editore, “a trent’anni esatti dalla scoperta dell’inedito, poiché fornisce un tassello fondamentale al ritratto di un autore che ancora oggi sembra oscillare tra la figura dell’idolo inviolato e quella del mito infranto”.
Per gli addetti ai lavori, il Centro Studi Gozzano-Pavese di Torino sta organizzando il convegno “Cesare Pavese: dialoghi con i classici”, previsto il 3 e 4 novembre presso l’Università di Torino. L’obiettivo è quello di indagare sul rapporto dello scrittore e della sua opera con la cultura classica, le modalità e gli strumenti di accostamento con il mondo antico, il processo di progressiva appropriazione della lingua greca (Pavese aveva infatti frequentato il ginnasio moderno, che prevedeva il solo studio del latino); e, ancora, il rapporto con l’epica omerica, la rappresentazione dei personaggi mitologici e il concetto di tragedia, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla filosofia di Nietzsche.
Inoltre, come anticipato dalla direttrice Mariarosa Masoero, per la collana interna al Centro Studi è di prossima pubblicazione presso le Edizioni dell’Orso un carteggio inedito tra Pavese e l’ex direttore della scuola elementare di Santo Stefano Belbo, risalente al periodo 16 giugno ’49-6 luglio ’50, dove si parla di letteratura in termini e modi mai impiegati in altri scambi epistolari. Siamo nei giorni del Premio Strega, la “cadenza del soffrire” è ricominciata, “il dolore invade anche il mattino”, ma Pavese promette di fare ritorno, ancora una volta, al paese d’origine, tra la luna e i falò.
E proprio nel comune del Cuneese avrà luogo, tra poco più di una settimana, il Pavese Festival, dal 4 al 6 settembre. Filo conduttore scelto dalla Fondazione Cesare Pavese, una frase di speranza tratta dal Mestiere di vivere: “L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è cominciare, sempre ad ogni istante”.
Ad aprire la manifestazione, venerdì 4, il concerto di Davide “Boosta” Dileo: una passeggiata “lungo i sentieri meno battuti della musica contemporanea del ‘900 e le pietre miliari del suo repertorio pianistico”, ma anche un’occasione per presentare in anteprima i brani del nuovo album Boostology.
Sabato 5 protagonisti Marcello Fois e Neri Marcorè, due habitué del festival. Lo scrittore sardo tornerà a Santo Stefano Belbo con Gavino Murgia per riprendere il percorso avviato nel 2016 con l’interpretazione di altri sette dei Dialoghi con Leucò. Neri Marcorè presenterà invece una propria lettura del romanzo La luna e i falò, nel 70° anniversario della pubblicazione.
Doppio appuntamento anche domenica 6: nel pomeriggio Omar Pedrini renderà omaggio a Pavese condividendo con il pubblico la propria passione per lo scrittore, tra parole e musica. In serata, sarà La luna e i falò, il nuovo spettacolo teatrale di Andrea Bosca con la regia di Paolo Briguglia, a chiudere il programma.
A fondo pagina, le altre news correlate al settantenario e pubblicate su Torino Oggi.