"I suicidi sono omicidi timidi. Masochismo invece che sadismo". Così annotava Cesare Pavese il 17 agosto 1950 su una delle ultime pagine scritte in quello zibaldone di appunti e riflessioni che sarebbe poi stato pubblicato come Il mestiere di vivere dopo la sua morte. Un'annata che l'aveva visto vincitore al Premio Strega con il volume La bella estate, inaspettatamente, il "massimo trionfo", come l'ebbe a definire con ironia lo stesso autore prima di partire per la capitale. Ma anche un anno segnato dal ritorno preponderante del "vizio assurdo", il pensiero del suicidio che lo visitava periodicamente fin da ragazzo, al culmine di quelle sofferenze amorose capaci di minare un temperamento già di per sé schivo, solitario, melanconico.
Sono più radi e scarni del solito, in questo periodo, gli interventi-confessioni affidati alla pagina scritta. Pavese affronta pazientemente la lenta "cadenza del soffrire", tra l'alloggio di via Lamarmora, a Torino, e qualche sporadica visita al paese natio di Santo Stefano Belbo, per parlare con l'amico Pinolo Scaglione. Spesso i suoi pensieri si limitano a due frasi scisse da un punto fermo, secco, implacabile. "Non si può finire con stile. Adesso la tentazione di lei", scriveva solo un mese prima, richiamando a sé l'attrice Constance Dowling, bionda e bellissima, "allodola" statunitense, "la venuta dal mare", ultimo tragico amore intessuto di lirismo e fatalità.
In occasione del settantesimo anniversario della morte, Einaudi ha ripubblicato le principali opere di Pavese affidandone l'introduzione a prestigiosi scrittori contemporanei, in una sorta di dialogo umano e letterario tra passato e presente. Il mestiere di vivere - nell'edizione condotta sull'autografo a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay - è così raccontato da Domenico Starnone: "Mi commuoveva che Pavese, dopo aver ragionato parecchio di scrittura e un po' meno di amori infelici, concludesse il suo diario con 'non scriverò più' e pochi giorni dopo si ammazzasse".
Un incontro folgorante, quello con l'autore del diario, a partire dalla prima pagina datata il 6 ottobre 1935, durante il confino a Brancaleone Calabro, dove Pavese ammette di aver scritto alcune poesie convincenti e di approcciarsi al tempo stesso al verso con sempre maggiore riluttanza. "Pare che stia per cominciare la storia di un poeta autorifessivo - scrive Starnone - che si prepara a individuare con una prosa complessa, non liricizzata, una sua crisi creativa che più ci scavi e più si complica, annettendo materiali diversi". Non inaridimento, ma consapevolezza che i frutti del suo poetare siano insieme "una fortuna e una trappola, un'illuminazione e un peccato".
Un percorso interiore cui non interessa il riscontro pubblico, attraversando tutto ciò che per Pavese è "mestiere": letteratura, poesia, vita, fino al coraggioso, ma umile, gesto finale. Che non doveva essere una vendetta contro la fonte del dolore, ma "una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto provato e ritmico". La battuta finale, senza fare troppi pettegolezzi.