Attualità - 24 agosto 2025, 07:00

Il Risorgimento e l’Italia che (si) fece: eroi, strategie e popoli

A metà Ottocento, l’Italia era una costellazione di Stati, regni, ducati e territori dominati da potenze straniere, ciascuno con le proprie leggi, monete, dogane e dialetti; era un Paese diviso non solo sulla carta, ma anche nella testa e nel cuore della sua gente. Eppure, proprio in quel mosaico frammentato, qualcosa cominciò a muoversi.

L’idea di un’Italia unita, libera e indipendente prese forma prima nei circoli intellettuali, poi nelle piazze, nelle barricate, negli eserciti. Non fu un sogno che si realizzò da solo: servì il coraggio di chi sapeva osare, la lucidità di chi sapeva trattare, il sacrificio di chi era disposto a perdere tutto pur di costruire qualcosa che non esisteva ancora.

E questa scintilla si accese ovunque: dal Piemonte sabaudo alla Liguria ribelle, dalla Lombardia in rivolta alla silenziosa ma partecipe Valle d’Aosta, per poi espandersi in tutta Italia. Qui nacquero alleanze, insurrezioni, giornali clandestini e reti rivoluzionarie e qui agirono figure oggi leggendarie — Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II — accanto a una moltitudine di italiani senza nome: studenti, artigiani, donne, insegnanti, soldati improvvisati. Gente comune, animata da un’idea che cominciava a sembrare possibile: un’Italia unita.

L’Italia non nacque in un giorno, né da una sola volontà. Fu un processo lungo e combattuto, fatto di fallimenti e rinascite. E fu, soprattutto, opera di popoli in movimento, che nel Nord-Ovest trovarono terreno fertile per seminare il futuro.

Il Piemonte sabaudo: tra diplomazia, fucili e ferrovie

A metà Ottocento, il Regno di Sardegna era molto più che l’insieme di isole e territori che il nome lasciava intendere. Il suo cuore batteva a Torino, tra le piazze ordinate e i caffè illuministi del Piemonte. Qui, sotto la guida della dinastia dei Savoia, si forgiava una nuova idea di Stato: moderno, efficiente, liberale quanto basta da risultare credibile agli occhi delle potenze europee, ma solido nelle sue istituzioni monarchiche.

La vera mente di questa trasformazione fu Camillo Benso, conte di Cavour. Politico concreto, europeo nel pensiero, realista e visionario insieme. Mentre gli altri cospiravano, Cavour costruiva: ferrovie, banche, trattati commerciali. Sapeva che per unire l’Italia servivano alleanze prima che eserciti. Per questo fece entrare il Regno di Sardegna nella Guerra di Crimea (1855), non certo per amore della causa, ma per sedere al tavolo dei vincitori. Il colpo grosso arrivò poco dopo, con l’accordo segreto con Napoleone III: il Piemonte avrebbe combattuto contro l’Austria, e in cambio la Francia avrebbe appoggiato la causa italiana. Fu l’inizio della Seconda Guerra d’Indipendenza.

Accanto a lui, Vittorio Emanuele II, figlio del re Carlo Alberto, divenne il volto monarchico del Risorgimento. Uomo più d’azione che di parola, fu amato dal popolo per il suo spirito schietto, i baffoni e la capacità di ispirare fiducia nei momenti difficili.

Il Piemonte non era solo palazzo e diplomazia. Era anche esercito, volontari, stampa, entusiasmo popolare. Mentre Torino si preparava a diventare la prima capitale d’Italia, dai paesi e dalle valli del Piemonte partivano giovani con il fucile in spalla e la speranza negli occhi. E la storia cominciava a cambiare.

La Liguria: vela al vento verso l’unità

Stretta tra le montagne e il mare, la Liguria non poteva restare ai margini del Risorgimento. La sua storia di porto aperto sul mondo, di commerci, di viaggi e di indipendenza politica, ne fece un terreno naturalmente incline al fermento delle idee nuove. A Genova, città dal cuore repubblicano e dal passato glorioso, il vento della rivoluzione spirava da tempo. L’annessione al Regno di Sardegna nel 1815, imposta dopo la caduta di Napoleone, fu vissuta da molti come una ferita: non tutti accettarono facilmente la perdita dell’autonomia e l’inserimento in uno Stato monarchico. Proprio questo malcontento alimentò la diffusione di ideali radicali e repubblicani.

Fu qui che nacque Giuseppe Mazzini, genovese di nascita e rivoluzionario per vocazione. Visionario e determinato, Mazzini fu tra i primi a pensare l’Italia come una Nazione unita, libera e, soprattutto, repubblicana. Fondò nel 1831 la Giovine Italia, un’organizzazione clandestina che seminò speranze, ribellioni e nuove coscienze. La Liguria divenne uno dei suoi principali laboratori di idee, di contatti e di reti cospirative. Le sue insurrezioni fallirono, ma lasciarono il segno: formarono una generazione di italiani pronti a lottare per un’idea più grande di loro.

Tra coloro che raccolsero quell’eredità ci fu Giuseppe Garibaldi, nato a Nizza (all’epoca parte del Regno di Sardegna), ma profondamente legato alla Liguria per vita, affetti e battaglie. Dopo aver combattuto per la libertà in Sud America, tornò in Italia come un mito vivente. E fu proprio dalla Liguria, da Quarto, che il 5 maggio 1860 salpò con i suoi Mille verso la Sicilia. Erano uomini comuni, con divise improvvisate e ideali giganteschi, pronti a cambiare il destino di una nazione.

La Liguria fu molto più che un punto di partenza: fu culla di pensieri radicali, rifugio di rivoluzionari, officina di sogni concreti. Da qui partirono non solo navi, ma messaggi, volontari, stampa clandestina, entusiasmo. Quando l’Italia fu unita, molti tornarono a Genova non solo per nostalgia, ma per rendere omaggio al luogo dove il Risorgimento aveva trovato la sua voce più audace e la sua vela più coraggiosa.

Varese tra confini e battaglie

In Lombardia, la dominazione austriaca era vissuta con disagio crescente. Non solo per l’oppressione politica, ma anche per il peso fiscale e la diffidenza verso la borghesia locale. Qui, nelle campagne e nei salotti, si respirava voglia di cambiamento. Varese, città allora piccola ma attivissima, si trovava proprio sul confine tra il Regno di Sardegna e il Regno Lombardo-Veneto: era un punto di passaggio, ma anche di contatto, di tensione, di resistenza.

Nel 1848, la Prima Guerra d’Indipendenza vide l’insurrezione di Milano e la partecipazione di molti volontari lombardi. Ma fu nel 1859 che Varese entrò davvero nella leggenda: il 26 maggio, Garibaldi — tornato in Lombardia alla guida dei Cacciatori delle Alpi — affrontò e sconfisse le truppe austriache nei pressi della città. Fu una battaglia rapida, efficace, spettacolare per l’epoca. La popolazione partecipò attivamente: dava informazioni, curava i feriti, accoglieva i patrioti.

Il giorno dopo la vittoria, Varese s’illuminò di bandiere e speranza. Era il segno che l’Austria poteva essere sconfitta, che l’Italia poteva nascere anche dal basso, dalle città medie, dai volontari.

Mantova: una fortezza, dei martiri, un simbolo

Se Varese fu liberazione, Mantova fu resistenza. Stretta nel sistema difensivo austriaco del Quadrilatero, quel sistema di fortezze che comprendeva anche Verona, Peschiera e Legnago, la città visse anni sotto stretta sorveglianza imperiale. Ma dietro le mura, cresceva il coraggio.

Tra il 1852 e il 1855, un gruppo di patrioti — sacerdoti, studenti, borghesi — fu arrestato per cospirazione contro l’occupazione austriaca. Le condanne furono pesantissime: Tito Speri, Enrico Tazzoli, Carlo Montanari e altri furono impiccati a Belfiore, poco fuori città. Le loro lettere dal carcere, scritte di nascosto con lucidità e dolore, diventarono simboli della lotta per la libertà. I Martiri di Belfiore morirono in silenzio, ma l’eco delle loro parole divenne un grido che scosse un’intera generazione.

Mantova non si liberò subito dal giogo straniero: fu annessa all’Italia solo nel 1866. Ma il suo contributo al Risorgimento non fu militare, fu morale. Una città murata, ma con l’anima aperta: la prova che anche nella repressione può nascere una speranza.

Un’eredità che cammina con noi

L’Italia non nacque in un giorno. E nemmeno in una sola città. Fu un cammino collettivo, lungo, contraddittorio, ma tenace. Città come Torino, Genova, Varese, Mantova e tanti altri luoghi, furono la strada maestra di quel cammino, ed il nostro gruppo editoriale è fiero di trovarsi in tutte quelle città per raccontarne le storie.

Oggi camminiamo su vie che portano i nomi di quegli eroi: Cavour, Garibaldi, Mazzini, Speri, Tazzoli... I loro volti sono scolpiti nei monumenti, le loro storie nei libri, ma anche nei silenzi delle piazze, nei nomi delle scuole, nei racconti dei nonni. Non sempre ce ne accorgiamo, ma il Risorgimento ci cammina accanto.

E forse, ogni volta che alziamo lo sguardo verso una bandiera o attraversiamo una piazza intitolata a un patriota, qualcosa dentro di noi ci ricorda che essere italiani è stata, prima di tutto, una scelta. E che in quella scelta, il popolo mise il cuore.

Valeria Toscano