Eventi - 10 maggio 2017, 09:38

All’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, la filosofia e la medicina si incontrano nuovamente in un dialogo tra esperti

Si è svolto ieri il secondo incontro del progetto promosso dal primario del reparto di terapia intensiva Sergio Livigni

All’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, la filosofia e la medicina si incontrano nuovamente in un dialogo tra esperti

Si è tenuto ieri il secondo di tre incontri, presso la sala Ravetti dell’ospedale San Giovanni Bosco, dedicati alla riscoperta del rapporto che intercorre tra la filosofia e la medicina. Tema della discussione: la figura del medico nella tradizione occidentale. A introdurlo la dottoressa in Filosofia e bioeticista Chiara Calliera che, attraverso un excursus storico-filosofico, ha focalizzato l’attenzione sui mutamenti che hanno caratterizzato la figura del medico: da detentore di un sapere mitico, sacerdotale e non ancora “tecnico”, alla figura di Ippocrate, il primo a decidere di aprire la propria scuola medica anche ai non appartenenti alla famiglia degli asclepiadi – si riteneva, infatti, che Asclepio fosse il dio della medicina, di cui il padre di Ippocrate si considerava un discendente. Ippocrate, inoltre, fu il primo ad assumere un atteggiamento razionalizzante nei confronti della malattia, considerata come condizione di disequilibrio, e a fornire una nuova definizione dell’essere umano, che tenesse conto anche della sua relazione con l’ambiente circostante. Importante anche il rapporto instaurato con il paziente: per riferirsi a esso, infatti, veniva utilizzato il caso duale, che, in greco, aveva il compito di indicare il doppio o, comunque, componenti formanti una coppia.

Una volta superati Medioevo e Rinascimento – il primo, riconoscendo lo statuto intellettuale della disciplina, grazie anche alla traduzione di testi sorti in ambito arabo e greco; il secondo, sviluppando la filosofia della natura e considerando il corpo come un microcosmo –, e meccanicismo e vitalismo, propri dell’età moderna, si giunge all’iperspecializzazione, caratteristica dell’epoca attuale, la quale comporta sostanzialmente due rischi: da un lato, crea un’illusione di immortalità; dall’altro, provoca la perdita del valore soggettivo della persona malata. E qui si inserisce il discorso condotto da Giuseppe Naretto, anestesista rianimatore, che ha analizzato le risposte del medico contemporaneo all’Evidence-based medicine, che incapperebbe in un paradosso, perché: 1) seguendo scrupolosamente l’EBM, vengono curate adeguatamente solo le persone che hanno la fortuna di rientrare in uno standard; 2) la “disuguaglianza clinica per evidenza scientifica” porrebbe la questione di come curare persone diverse garantendo loro almeno un’accettabile equi-probabilità di risultato (Ivan Cavicchi). Quali potrebbero essere le alternative? Ve ne sono almeno 3: le Medical Humanities, movimento che comprende discipline diverse, quali letteratura, arte, cinema, filosofia, etica, antropologia, che ricoprono finalità educative in campo medico e aiutano a rispondere a domande, e a crearne di nuove, offrendo nuove prospettive di pensiero; la Medicina Narrativa, ossia una metodologia assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa, che fornisce gli strumenti pratici e concettuali per comprendere il paziente, la sua malattia e la relazione umana che viene a crearsi tra questo e il medico, il quale incrementa, così, le proprie capacità empatiche, riflessive e di ascolto, per prendersi cura della persona malata con le sue emozioni, paure e speranze; e, infine, la Precision Medicine, che, per quanto riguarda trattamenti e prevenzione, tiene in considerazione il singolo individuo nella sua variabilità genetica, ambientale e di abitudini di vita.

Roberta Scalise

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