Ventitré anni.
Un bambino fa tempo a nascere, vivere i sogni più belli dell’infanzia e diplomarsi, crescere e farsi una famiglia propria. Insomma, tra un terzo e un quarto della sua vita, a seconda dei casi.
Ventitré anni sono anche, anzi, soprattutto, quelli trascorsi dal 30 giugno 1994, quando l’allora presidente del Torino Calcio, Gianmarco Calleri decise di chiudere e dismettere il Filadelfia e il 10 luglio 2017, quando le gloriose casacche granata riaccendono col loro sanguigno colore il prato degli Immortali.
Quel prato che ha visto le gesta del “trio delle meraviglie” Baloncieri, Libonatti e Rossetti, conquistare i primi due scudetti della nostra storia. Quello che ha cullato la nascita della più forte squadra italiana di tutti i tempi, il Grande Torino, che l’ha visto affermarsi e giocare cento partite consecutive senza una sconfitta, che ha assorbito le lacrime di una intera Nazione dopo la tragedia del 4 maggio 1949. Quello che ha tirato la cinghia, non solo sportiva, dei tempi grami della ricostruzione, con presidenti di dubbia caratura, che si alternavano come clienti al bancone di un bar.
Quello che ha sorriso all’arrivo di Pianelli, che con operaia pazienza ha riportato in alto il vessillo granata. Quello che ha gonfiato il petto orgoglioso alla poetica fantasia di Meroni e alla rude concretezza di Ferrini e ne ha poi pianto la prematura scomparsa. Quello che ha gioito per i ragazzi di Radice, che hanno ricucito lo scudetto sulle casacche granata ventisette anni dopo Superga. E quello stesso, infine, che ha visto la gloria mancata di un soffio ad Amsterdam, precedere un inesorabile declino, morale prima ancora che sportivo, concluso appunto con la chiusura, l’abbandono e infine l’estrema onta della demolizione e dell’oblio.
Ma oblio vero non è stato, perché a fronte del totale disinteresse delle istituzioni politiche ed amministrative, dello stesso Torino che avrebbe dovuto avere maggior cura e rispetto del suo Tempio, il soggetto più umile ma più vero di tutti, il Popolo Granata, ha creduto e resistito, combattuto e infine vinto.
Si, perché se oggi i nostri occhi umidi di commozione mal repressa vedono riemergere dal sottopassaggio rivisitato “terzo secolo” le maglie che furono di Adolfo, Valentino, Gigi, Giorgio e tutti gli altri, la spiegazione è una sola e va al di la del mercantile, oltre il politico, sopra l’economico, trascende il logico e si distilla in una sola parola.
Fede, con la F maiuscola.
Quella fiammella superstite del rogo immane di Superga, come ricorda la scritta incisa sulla targa commemorativa che fu al Filadelfia del 1950 al 1994 e che ora è amorevolmente custodita al Museo del Grande Torino, "Ex Igne Fax Ardet Nova”, ha scaldato la Fede, riempito i cuori e sorretto la gente del Toro in questi anni bui di retrocessioni e sconfitte, cessioni dei nostri migliori giocatori ed esilio e l’ha traghettata fino ad oggi, al ritorno a Casa.
Oggi non inizia solo una nuova stagione di calcio per una società sportiva, oggi ricomincia la Vita per un popolo intero. E se iniziare è sempre una bella avventura, ritrovarsi e ricominciare da dove la storia e la Storia si erano interrotte, rimane sempre la più intensa emozione e la più grande sfida.
I giocatori, gli allenatori, i presidenti, vanno e vengono. Il Filadelfia è e sarà per sempre.