Diciassette ottobre duemilaquindici.
Una data talmente importante, che si scrive tutta in lettere, senza sintetizzarla con cifre arabe o romane a sminuirla, rimpicciolirne l’importanza.
Era il giorno storico in cui fu posata la prima pietra della rinascita del Filadelfia, il Tempio della nostra Fede che tornava a vivere.
Quanta gente, su quel prato, spoglio e brullo, ma così impregnato di storia e gloria. Quanta gente ancora in vita, e nei loro cuori, quanta gente che non c’era più. Tutti li presenti a partecipare, con il cuore gonfio di aspettative e speranze e l’anima lieta per l’importanza di quello che si stava realizzando. Si, perché come scrisse Arpino, peraltro tifoso bianconero, ma di ampie vedute e di sano spirito sportivo, “Filadelfia! Ma chi sarà il villano a chiamarlo un campo? Era una culla di speranze, di vita e di rinascita, era sognare, gridare, era la luna, era la strada della nostra crescita” e quindi quel 17 ottobre, scelto non a caso o per caso, perché era l’ottantanovesimo anniversario della originaria inaugurazione, nel 1926, rappresentava molto di più di una attività edilizia o di una pomposa ma vuota cerimonia, come se ne vedono tante quando ci sono di mezzo politici e potentati di vario tipo che devono ostentare i loro veri o presunti meriti verso la popolazione. Quel giorno ero commosso, non mi vergogno ad ammetterlo, ho pianto di gioia e di liberazione per una tappa importante di una storia iniziata ventuno anni prima, quando il Filadelfia fu chiuso e abbandonato, alla mercé di speculatori senza scrupoli. Ventuno anni di battaglie e sofferenze, arrivate finalmente a compimento.
La sera precedente ero andato a Superga. Buio e silenzio avvolgevano la collina degli Immortali, ma il clima magico che si respira in quel luogo, che noi granata percepiamo così forte, quella sera era ancora più marcato del solito. Pochi minuti, giusto il tempo di avvicinarmi alla lapide e sussurrare loro “domani vi riportiamo a casa…” e poi giù, verso Torino, verso il cimitero monumentale in cui molti di loro ancora riposano, e dove ci sono le ceneri di mia madre e mio padre, disperse nel roseto, ma unite per l’eternità e da fuori, che i cancelli erano chiusi, vista l’ora, per dire a mio padre, cui a avevo promesso in fin di vita che avrei rifatto il Filadelfia, che stavo mantenendo la promessa.
La mattina successiva, tra tanta gente granata, alcuni dei quali scettici fino all’ultimo istante sulla riuscita dell’impresa, non seppi contenermi e esplosi in lacrime in quelle cinque sofferte, intense, sincere parole: “oggi torniamo a casa, cazzo!” urlate dal palco ed accolte da un ruggito liberatorio della folla.
Giuro, non vedevo l’ora che fossero terminati i lavori, non vedevo l’ora di rivedere un allenamento del Toro su quel prato, perché il giorno della chiusura, 30 giugno 1994, avevo promesso che non avrei più visto un allenamento del Toro, se non al Filadelfia. Una penitenza autoimposta di ventitré anni stava per concludersi.
Il 25 maggio 2017, qui ci stanno anche i numeri, non solo le lettere, in mezzo a mille discussioni e polemiche, si inaugura, finalmente, il Filadelfia. Una inaugurazione in tono minore, rispetto a quello che avrebbe potuto essere, sia ben chiaro, perché non ci è stato permesso di fare di più. Solo l’entusiasmo, anzi, la Fede, del Popolo Granata, l’ha trasformata in quell’evento epocale che è in effetti stata. Una data a me particolarmente cara, perché sarebbe stata l’ottantanovesimo compleanno di mio padre, che quel giorno era li con me, nel mio cuore, insieme a mio nonno, primo granata della famiglia Beccaria, a mio zio Giovanni, che fu quello che mi comprò la mia prima bandiera del Toro e a Mauro, fraterno amico di gioventù e di curva, portato via dal cancro a Natale 2016, ad un soffio dal sospirato traguardo.
Ebbene, ero e sono talmente amareggiato da come sono andate le cose, da quel giorno in avanti, che il primo allenamento del Toro al Filadelfia, devo ancora vederlo adesso.
Un luogo sacro, che nel cemento delle sue mura e dei suoi gradoni, conteneva il sangue e lo spirito di uomini, prima ancora che campioni, che lo avevano reso leggendario, era stato svilito, svenduto, oltraggiato. Il suo cortile, che aveva per decenni rappresentato l’agorà sportiva e popolare di Torino, espressamente progettato per essere tenuto aperto sempre, anche in caso di allenamenti a porte chiuse, rimane quasi sempre indisponibile per il pubblico. Si è voluto creare a tutti i costi lo spazio per un bar, manco se la gente si recasse li per bere e non per assistere ad allenamenti del Toro. Ma soprattutto ferisce la tracotanza con cui alcuni degli addetti ai lavori vivono questo luogo, cui dovrebbero invece avvicinarsi con rispetto, in punta di piedi, col cappello in mano, come si fa quando si entra in chiesa.
Un giorno o l’altro, suppongo, riuscirò a vincere la ritrosia e il fastidio e ad entrare, comune tifoso, a vedere un allenamento. Anche quel giorno, credo, dai miei occhi sgorgheranno calde e copiose lacrime.
Ma non saranno di commozione o di gioia, bensì di rabbia, per quel che avrebbe dovuto essere e non è stato ne sarà, probabilmente, mai.