La bottega era sempre piena di clienti e il laboratorio lavorava a pieno ritmo. Metà città mangiava i suoi cioccolatini e l'altra metà beveva la sua cioccolata. I guadagni si accumulavano e lui amava esibire abiti di broccato, gioielli, e ogni forma di ricchezza e ostentazione che gli passasse per il capo.
La moglie portava sopra i cappellini, fatti venire appositamente da Parigi, piume colorate provenienti dagli esotici sederi di uccelli dai nomi impronunciabili. Il figlioletto aveva una stanza intera piena di giocattoli, così tanti che alcuni finivano solo per prender polvere senza essere mai utilizzati.
Il cioccolataio doveva la sua fortuna alle delizie che produceva e alla felice congiuntura. La nobiltà torinese si viziava col cioccolato e i migliori maestri di quest'ultimo stavano guadagnando una fortuna. Tra questi c'erano i morigerati e i sobri che non amavano ostentare o scialacquare e poi c'era il protagonista di questa storia che, al contrario, era un pavone mai stanco di esibirsi.
Tanta vanità e desiderio di esibizione raggiunsero un nuovo apice il giorno che il cioccolataio vide passare per la strada la carrozza del Re. Uno splendore d'oro e stucchi che attraversava i portici tirata da quattro cavalli di razza. "Guarda che meraviglia!" disse alla moglie. "È il re, fortunato lui che può avere tutte le cose migliori", rispose lei. "Mica solo lui, per certe cose basta avere le tasche tintinnanti!" E quelle del cioccolataio in questione tintinnavano, tintinnavano eccome!
Fu così che il nostro protagonista spese una fortuna per ordinare una carrozza nuova di zecca trainata da quattro cavalli di razza purissima. E, appena, gliela consegnarono, fece salire moglie e figlio e si mise a fare il giro della città. In centro, sotto i portici, il cioccolataio si gonfiava il petto e si dava delle grandi arie.
Così fece ogni giorno della settimana fino a quando la sua vanità giunse persino alle orecchie del Re. "Una carrozza con quattro vacali come i miei? Come si permette quel plebeo?” urlò il sovrano ai suoi valletti. “Voglio una carrozza nuova, un tiro a sei, non voglio correre il rischio di esser scambiato per questo cafone, non posso fare la figura del cioccolataio!"
Ed è così che, forse, nacque il modo di dire torinese, “fè na figura da ciculatè”, fare una figura da cioccolataio.