Eventi - 22 settembre 2019, 10:02

Sette giorni nella natura per rinascere: il nuovo film di Caruso ci porta “A riveder le stelle”

Dopo il successo di “La terra buona”, il regista di Alba torna al cinema a marzo 2020 con un nuovo documentario, girato a impazzo zero in Val Grande, con Giuseppe Cederna e Maya Sansa. La presentazione fine-riprese a Torino

Sette giorni nella natura per rinascere: il nuovo film di Caruso ci porta “A riveder le stelle”

Ritrovare il contatto con la natura estraniandosi dalla società dei consumi. Un atto depurativo per espiare le tante cattive azioni che quotidianamente – e consapevolmente – facciamo, danneggiando noi stessi e il mondo circostante. Dopo l’inaspettato successo del primo film, La terra buona, con oltre 55 mila biglietti venduti e un incasso al botteghino superiore ai 310 mila euro, il giovane regista di Alba Emanuele Caruso torna al cinema con un nuovo lavoro.

Grazie al sostegno di Film Commission Torino Piemonte – Piemonte doc Film Fund e del Parco Nazionale della Val Grande, a marzo 2020 uscirà in sala A riveder le stelle, documentario prodotto da Alba Obiettivo Cinema con Giuseppe Cederna, Maya Sansa e la partecipazione straordinaria di Franco Berrino, epidemiologo, per molti anni all'Istituto Nazionale Tumori di Milano e ora promotore attivo della corretta alimentazione come salvavita.

Un progetto del tutto sperimentale, girato a impatto zero e con un investimento di 71 mila euro, utilizzando unicamente due iPhone di ultima generazione – alimentati da power bank professionali ricaricabili con pannelli solari – in soli sette giorni all’inizio di agosto.

La sfida iniziale del film era di mettere assieme una sorta di “Compagnia dell’Anello”, come Caruso la definisce, formata da persone che non si conoscevano, provenienti da differenti stili di vita, ceti sociali, abitudini. Mondi completamente diversi che si sono congiunti per condividere un’esperienza comunitaria di riflessioni e presa di coscienza, immersi nella selvaggia e incontaminata Val Grande, la stessa location del primo documentario. Al confine con la Svizzera, nel Verbano-Cusio-Ossola, 152 km quadrati di natura non sfregiata dalla mano dell’uomo, senza rete mobile né elettricità, con pochi bivacchi per ristorarsi, erti in mezzo al nulla.

L’esigenza che mi ha spinto – dice Caruso – era di raccontare un pianeta che sta cambiando in modo non sostenibile. Ed è una tematica che troppo spesso viene affrontata sciorinando dati incontrovertibili che allo spettatore però non trasmettono nulla. Io, invece, ho voluto raccontarla attraverso un’esperienza umana. E me l’ha suggerito l’interesse del pubblico stesso, che per circa quattro settimane ha affollato le sale cinema di Torino per vedere La terra buona. È la dimensione umana e spirituale del fenomeno, a colpire veramente”.

Per questo – continua –, sebbene i progetti iniziali fossero diversi, ho immaginato di costruire il film come se dovesse rivolgersi a degli spettatori ideali del futuro, tra duecento anni, che chiedono conto a noi del disastro che abbiamo provocato. Non nego di aver attraversato momenti di duro crollo emotivo, soprattutto i primi giorni, perché temevo che una prova del genere non fosse alla nostra portata. Per il film mi sono allenato fisicamente un anno, andando a correre e perdendo 12 chili. Ed è stata senza dubbio l’esperienza più faticosa della mia vita”.

La grande sfida – di resistenza in primis –, accolta dagli otto partecipanti, compresa la troupe, è stata quindi quella di raccontare la propria esperienza di vita, condividendo un percorso personale. Tutto questo camminano per un’intera settimana, zaino in spalla, percorrendo 36 km lungo un dislivello di 5000 metri, dove le stelle del titolo dantesco sono l’unica luce notturna (e anche l’unica speranza di rinascita).

Abbiamo camminato connettendoci con la natura e tra di noi – racconta Giuseppe Cederna, che aveva già lavorato con Caruso in un film precedente –. Lo abbiamo fatto con una grande umiltà, creando un vero laboratorio di apertura verso il mondo, dove ognuno di noi si è raccontato e si è messo continuamente in gioco. Dell’esperienza vissuta in questo Parco, realmente selvaggio, mi resterà per sempre impressa l’accoglienza e la grande generosità delle guardie forestali e il rapporto con la natura che ognuno di noi si è impegnato a riscoprire. Nel corso dei sette giorni abbiamo creato dei veri e propri ritratti umani, guardandoci dentro e imparando a convivere con persone sconosciute e diverse da noi”.

Il bisogno di autenticità espresso dal regista, e dal gruppo di camminatori, incrementato da nuovi elementi in aggiunta nel corso del viaggio, ha trovato infine sbocco in un rinnovamento interiore, dell’animo, poi accordato con l’equilibrio perfetto della natura tutt’attorno. Ed è proprio questo il messaggio finale del film: la possibilità di cambiare il corso delle cose esiste, ma dipende solo dal percorso che ciascuno di noi sceglie di fare. A cominciare dall’immersione quasi ancestrale, in un eden perduto, di Franco Berrino, che commenta così l’esperienza appena vissuta: “Per me il viaggio è sempre a piedi. Meglio se in salita, in montagna, dove la fatica e il ritmo pacificano la mente. Amo accompagnare il ritmo del cammino recitando mentalmente un mantra, una sillaba ad ogni passo: RaMa DaSa SaSe SoHam, io sono questo, sono uno con l’infinito”.

Un film che Caruso dedica anche alla memoria di Paolo Tenna, ad di Film Commission Piemonte, scomparso tragicamente a Roma lo scorso maggio. “Gli devo tanto. Ancora non riesco a digerire l’idea che se ne sia andato così, pochi mesi fa – ha detto –. Ma di sicuro la sua mancanza in questo progetto si è fatta molto sentire”.

Manuela Marascio

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