L'ha fatto di nuovo. Anche questa volta, come già spesso in passato, il circo Capossela ha piantato il suo tendone nel bel mezzo di Torino. E al suo interno ha mostrato a un pubblico ormai devoto quasi fino all'idolatria tutti i colori di cui è composta la sua tavolozza. Vette spirituali e baratri esistenziali: mai giudicati, ma sempre raccontati con occhio complice e divertito in uno spettacolo durato oltre tre ore.
Al teatro Colosseo (nome che il cantautore nato ad Hannover dimostra di apprezzare già dal primo brano in scaletta), Vinicio ha tratteggiato ancora una volta il suo universo fatto di musica, ma anche di teatro ora poetico, ora grottesco. E poi scandito da tante parole. "Recitativo", come dice lui stesso. In realtà sono discorsi che legano l'un l'altro brani che spesso si distanziano di interi decenni, all'interno della sua produzione, ma che finiscono per comporre un unico filo logico, continuo e coerente. Un mondo colorato e ricco di ombre, strano e straniante. Malinconico e dolente, ma anche buffo e divertente tanto da fare saltare in piedi le persone che rompono qualunque canone del pubblico "da teatro" (era già successo anche al Regio, diversi anni fa, quando al culmine di un'esibizione esplosiva e tutto il pubblico a ballare sotto il palcoscenico lo stesso Capossela ridacchiava con finto rimorso "mi sa che non ce lo danno più").
Tutto comincia con pitture rupestri e danze macabre che sono l'alfa e l'omega non solo del suo ultimo album, ma un po' di tutta l'esistenza umana. E in un mondo in cui chi vive nel fango (e del fango) "ha come unico vero nemico la cultura", dice Vinicio, non mancano i riferimenti colti e "torinesi" come quelli ad Antonio Gramsci, Primo Levi, Friedrich Nietzsche, ma anche Dante e Oscar Wilde. "Dal cubismo siamo passati alle cubiste, nel giro di un secolo", gigioneggia, così come quando ricorda che per tradizione le sirene fuggono da "Capitani che non amano gli ibridi di razze". E intanto alterna travestimenti, ombra cinesi e diavolerie assortite con una band di altissimo livello. Lui alterna la "danza" abbracciato alla sua chitarra a tracolla e i momenti al pianoforte, vero timone di un galeone che solca gli oceani che solo un artista unico come Capossela sa creare e poi navigare con destrezza da nocchiere.
Ma ci sono anche riferimenti all'attualità dolorosa del Mediterraneo, con La Madonna delle conchiglie, cui mescola l'anarchica baldanza del Maraja, le storie di animali da fattoria diretti a Brema per scampare a una fine ingenerosa e prematura e rivisitazioni di brani storici "in chiave pre-raffaelita". E poi ancora pensieri rivolti a ciò che accade in tante piazze del mondo: Cile, Siria, Hong Kong, solo per dirne alcune. Luoghi dove ambienta due brani come "Il povero Cristo" e il precedente "L'uomo vivo", che di fatto sono due facce della stessa medaglia.
E per chiudere il concerto, con gli immancabili bis, Vinicio Capossela completa il suo tributo a Torino (città che dimostra di amare davvero e non solo per doveri di tournèe) con Il ballo di San Vito, che per l'occasione diventa il Ballo di San Salvario e ovviamente Il tanco del Murazzo. Malinconia dolorosa infine con Ultimo amore, forse il brano più struggente di tutto il suo repertorio e la colossale Ovunque proteggi, una sorta di litania laica che ricorda da vicino la Smisurata preghiera di Fabrizio De André e durante la quale ricorda alcuni dei suoi amici torinesi come Guido Ceronetti, oppure il produttore Carlo Rossi, "proprio colui che ha registrato questa canzone", sospira Vinicio tormentando i tasti del suo pianoforte-rifugio.