Con i suoi 8201 metri, il Cho Oyu è la sesta montagna più alta della Terra. “Sul trono degli dei” - pubblicato per la prima volta in Italia con la traduzione di Paolo Ascenzi per la collana “Le Parusciole” di MonteRosa Edizioni - racconta con la voce del capo spedizione Herbert Tichy la storia della prima salita a questa montagna, avvenuta il 19 ottobre del 1954.
Il libro verrà presentato per la prima volta a Torino mercoledì 27 novembre alle ore 18,30 presso la libreria La Montagna a Torino, insieme a Paolo Ascenzi, accademico del GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna), alpinista e traduttore del libro e a Fabio Beozzi, maestro di sci e ripidista, che ha firmato la prima discesa con gli sci della variante Messner del Cho Oyu.
Herbert Tichy fu viaggiatore, geologo, fotografo e scrittore austriaco e raggiunse la vetta insieme ai compagni di cordata Sepp Jöchler, alpinista austriaco che aveva scalato la parete nord dell’Eiger con Hermann Buhl; Helmut Heuberger, geografo all’Università di Innsbruck e lo Sherpa Pasang Dawa Lama, fedele compagno delle precedenti scorribande di Tichy in Nepal. Nonostante oggi la fama di questi uomini si sia persa nel tempo, la loro impresa resta memorabile. Se oggi infatti, il Cho Oyu è considerato tra gli ottomila più facili e viene raggiunto ogni anno da decine di alpinisti, non era certamente tale negli anni ‘50, soprattutto per una spedizione rivelatasi per molti aspetti innovativa: leggera, con uso estremamente limitato di corde fisse, senza ossigeno e organizzata nel periodo post monsonico quando “Tra il monsone estivo, che imperversa da giugno a settembre, e le tempeste invernali, durante le quali qualsiasi tentativo è impossibile non soltanto per il freddo ma anche per la brevità della giornate, potesse esserci un breve tregua in grado di combinare i vantaggi e gli svantaggi di entrambe le stagioni in quanto le tempeste sarebbero state sopportabili, il freddo accettabile e il vento avrebbe spazzato via la neve dalle montagne.”
Il libro non racconta soltanto di come Tichy raggiunse la vetta nonostante un grave congelamento alla mani, ma è un vero e proprio viaggio nella terra del Nepal e degli Sherpa, con i quali l’autore strinse un profondo e sincero rapporto d’amicizia e la cui cultura gli ispirò diverse considerazioni degne di nota, tra cui questa dedicata alle bandiere di preghiera.
“Seduto nella mia casa penso e scrivo ciò che mi ispirano le bandiere di preghiera; fuori dalla finestra posso vedere altre finestre e i tetti di altri edifici; c’è una pozza d’acqua sul balcone dopo la pioggia di ieri sera. Le increspature sulla sua superficie potrebbero essere causate soltanto da un forte vento, ma il rumore del vento è sommerso dal rumore della città; le case formano una barriera invalicabile e non si vede un pennacchio di fumo. Non mi sarei accorto del forte vento se non fosse stato per le increspature della superficie di questa piccola pozza d’acqua. Forse accade lo stesso con le bandiere di preghiera. Le amo non perché prendono le armi contro il cielo e lo assalgono con le loro speranze e paure, ma perché danno forma a ogni suo minimo respiro e lo trasformano in suono e movimento. L’invisibile, impercettibile bufera fuori dalla mia finestra è spettrale e opprimente. Sì, amo le bandiere di preghiera perché offrono una seconda vita alla bufera e al silenzio.”