Valter Malosti, facciamo il punto sulla stagione di TPE, interrotta a causa dell’emergenza Coronavirus. Quanti sono stati gli spettacoli sospesi o annullati e qual era la vostra percezione, in termini di gradimento e partecipazione del pubblico, nei primi mesi del 2020?
Siamo arrivati a due stagioni molto fortunate, raddoppiando gli abbonati fino a 3200, come rilevato a inizio anno. E in primavera contavamo di incrementare questo numero grazie a diverse proposte interessanti. Abbiamo un pubblico generosissimo e poco “nevrotico”, per così dire, infatti nei primi giorni di stop erano tutti molto tranquilli, non ci sono stati isterismi di sorta per il cambio dei biglietti. Siamo quindi fiduciosi di non avere troppi problemi, in futuro, sperando di riuscire a riaprire in fretta. Mancavano ancora tre mesi abbondanti, per completare il cartellone, ma, d’altra parte, l’alternativa inizialmente prospettata, cioè riaprire i teatri in modo contingentato, non sarebbe stata la soluzione migliore. Faccio sempre un esempio lontano nel tempo da noi, ma molto indicativo. Io ho studiato a lungo i poemetti di Shakespeare, scritti tra il 1593 e il 1594, due anni in cui i teatri erano chiusi per la peste. Le opere gli erano state commissionate del conte di Southampton, Henry Wriothesley, e sarebbero poi diventati due capolavori della letteratura, capostipiti della poesia inglese come per noi potrebbe essere Dante, e d’ispirazione anche per alcuni suoi lavori teatrali successivi. Ecco, in quell’occasione l’intervento dello Stato, a favore di una grande mente come Shakespeare, si fece sentire, e lui riuscì a campare e mantenere la famiglia proprio grazie a questa protezione. Voglio dire che il teatro è solo una goccia nel mare della cultura italiana, e bisogna che si salvi il comparto tutto assieme, che è strategico per il nostro Paese, e non è soltanto un’industria. Noi, proprio perché siamo finanziati dallo Stato dovremmo assumerci il rischio di realizzare cose “alte”, e non soltanto delle operazioni commerciali. Certo, bisogna fare attenzione ai bilanci in primis, ma con Tpe lo stiamo facendo in modo superbo, in questi anni. Si tratta insomma di usare bene i soldi che ci arrivano. Ora bisogna vedere cosa fare in futuro, ogni settimana riceviamo nuovi aggiornamenti, ma io sono ottimista per natura e credo che torneremo ad affollare i teatri - uso appositamente un termine che ora fa un po’ di paura. D’altra parte il teatro ha sempre avuto fin dai tempi antichi una dimensione assembleare. Quando mi si chiede se ci sono altri modi per farlo sopravvivere, dico di no, che non ce ne sono, il teatro è solo quello. Io ho portato tantissimi spettacoli in luoghi non convenzionali, è possibile farlo. Ma mi torna in mente quando la messa in scena “Se questo è un uomo”, per il centenario di Primo Levi, qualche mese fa: quelle parole, lette da soli, nella propria camerata solo una cosa, ma in mezzo a una platea gremita assumono tutta un’altra forma.
È il suo secondo anno di direzione. Il 2018/19 si era chiuso con 17 nuove produzioni TPE, quello corrente si è aperto con altre 15 e un totale di 39 titoli in cartellone. Sicuramente l’attenzione alla nuova drammaturgia contemporanea è uno degli elementi predominanti, nel suo teatro, assieme al bisogno di “autenticità” del lavoro degli artisti, come da lei più volte sottolineato. Come calibrare la ricerca di qualità con la quantità, quando arriverà il momento di uscire da questa crisi? Avete in mente un piano da seguire?
Questo momento di sospensione ci ha cambiato molto, credo. Non sono uno di quelli che cerca di fare gli “istant play”, come una qualche commedia sul Coronavirus, ma si può realizzare senza dubbio un teatro civile anche diffondendo il messaggio di Ifigenia in Tauride di Euripide, e tra l’altro c’è la peste pure lì. Ripartiremo tutti con una differente esperienza acquisita, e sicuramente i membri della mia équipe mi aiuteranno a capire cosa fare. La mia attenzione verso la qualità è fondamentale, specialmente in un teatro che si sta caratterizzando per una cura specifica della dimensione contemporanea.
Si è conclusa da poco, sul sito di TPE, la trasmissione di tre radiodrammi in podcast da lei realizzati e diretti per Rai Radio 3: Le amare lacrime di Petra von Kant di Rainer Werner Fassbinder, La governante di Vitaliano Brancati e M. Butterfly di David Henry Hwang. Perché avete scelto di riproporli e qual è il loro valore in un momento di chiusura serrata come quello che viviamo?
L’abbiamo fatto soprattutto per mantenere un contatto con il pubblico che ci viene a vedere in teatro. Ho scelto il mezzo radiofonico perché in questo momento l’ascolto è uno strumento interessante e la radio ha un ruolo cruciale, ancora più della televisione. Nei giorni scorsi, ad esempio, ho fatto vedere a mia figlia di 11 anni l’Odissea del 1968, una produzione Rai di alto livello. Ecco, credo che bisognerebbe tornare a quel tipo di altezza anche nei mezzi pubblici audiovisivi a disposizione di tutti. Ritengo che la gente ne abbia desiderio, e non soltanto abbia voglia vedere del trash, delle lacrime o dei rosari finti.
Come mi accennava prima, avrà sicuramente riflettuto in questi giorni sulla funzione sociale del teatro, come luogo di scambio, aggregazione e riconoscimento. Secondo lei come sarà la ripresa di queste dinamiche, una volta passata l’emergenza?
Sì, è un discorso che stiamo portando avanti ormai da un paio d’anni. Anche nel tentativo di rendere l’Astra un teatro di quartiere. Abbiamo tante idee che sarà più facile realizzare una volta passata l’emergenza, al di là di tante norme asfissiati sulla sicurezza. Io non ho una predilezione per questi francobolli video in cui molta gente si esprime “artisticamente”, è un repertorio che mi fa un po’ tristezza: quella per me è autoreferenzialità, e ci sono momenti in cui bisognerebbe soltanto fare un passo indietro.
Uno degli appuntamenti cardine della stagione presente è sicuramente l’omaggio a Federico Fellini, per il suo centenario, con Giulietta, da lei diretto, con Roberta Caronia. Può parlarcene, indipendentemente dalla sua effettiva messa in scena nel mese di maggio?
Lo spettacolo è tratto da un lungo trattamento che Fellini scrisse prima del film Giulietta degli spiriti del 1965, pubblicato in Germania, quasi totalmente in forma di monologo. Si tratta di un lavoro che ho portato in scena per la prima volta quindici anni fa assieme a Michela Cescon. E ha anche segnato l’inizio di un mio lavoro più profondo legato alla musica. La scena è una specie di installazione di arte visiva, c’è una grande gonna che ingloba la protagonista, come fosse Giorni felici di Samuel Beckett. Fellini è una presenza importantissima nella mia ricerca perché rappresenta un’idea dell’uomo e della persona non soltanto nel quotidiano, ma soprattutto nella sua interiorità. Lo accusavano spesso di non aderire al neorealismo - malgrado avesse firmato la sceneggiatura di Roma, città aperta -, ma lui era interessato a guardare l’individuo dall’interno, non solo nella sua esteriorità. Questo testo miracolosamente ce lo riporta a tale dimensione. Infatti, quando Fellini scrisse Giulietta aveva in mente di fare una specie di pendant a 8½, costruendo la storia di un’attrice, ma Giulietta Masina non volle. Nel trattamento siamo più in quei dintorni, la donna descritta potrebbe proprio essere un’artista. E, tra l’altro, vi compare una seduta spiritica in cui figura Casanova, come anticipazione del film del 1976. Ora sono fiducioso, lo spettacolo in cartellone sarà recuperato entro l’anno felliniano, anche se non in tempi brevissimi.
Mi diceva della sua allergia a ogni eventuale opera teatrale riferita al tempo in cui stiamo vivendo. Diversamente, su cosa pensa di indirizzare i suoi interessi nei prossimi mesi?
Questo del virus è un tema che ci costringerà a riflettere anche su altri. Uno sicuramente è quello ambientale, perché ritengo che in teatro non se ne parli moltissimo. Ma ho trovato de testi interessanti, anche commissionandoli con Tpe a dei giovani registi, come frequentemente facciamo. Secondo me l’ambiente è un argomento collegato al Coronavirus, anche se non abbiamo completamente le evidenze scientifiche per dirlo con precisione. Mi piacerebbe che il pubblico potesse pensarci, perché il teatro in fondo è questo: una agorà in cui si riflette insieme.