Sembra ieri, invece sono già trascorsi quattro anni. Era il 25 maggio del 2017, incredibilmente splendeva il sole, nel cielo di Torino e nel cuore di tutti noi e, a novantuno anni dalla sua nascita ed a venti dalla sua demolizione, rinasceva lo Stadio Filadelfia.
Già, venti circa sono gli anni che sono scivolati via, lentamente ma inesorabilmente, dacché le ruspe della Fondazione Campo Filadelfia dell’ex sindaco e sedicente granata Diego Novelli, ridussero il Tempio della nostra Fede ad un prato di sterpaglie con qualche moncone del vecchio impianto a ricordare beffardamente quello che fu.
E quanto stridono questi venti anni, al cospetto dei sei mesi che il Conte Enrico Marone Cinzano impiegò, nel 1926, per realizzare, partendo da zero, il “Campo Torino di via Filadelfia”, come nella dicitura dell’epoca.
Da quel 17 ottobre del 1926, il Filadelfia fu la culla di un’epopea sportiva, ma ancor più, di una infinita storia d’amore, tra il Torino, la sua gente, la sua città. Ovviamente con alti e bassi, come in tutte le storie d’amore che si rispettino, con abbandoni e tradimenti, ritorni di fiamma e tragedie strazianti. Fino, appunto, all’oblio ed alla demolizione.
Ma può un amore così intenso e profondo, morire? Certo che no!
E così quattro anni fa, la fiamma che covava sotto le ceneri, mai spenta, mai doma, riprese a divampare. Ma quello che in quei giorni pareva essere un incendio indomabile, si dimostrò essere un fuoco di paglia. Spenti i riflettori sulla festa, anche il cortile, che era stato appositamente progettato per essere totalmente avulso dal resto dell’impianto, proprio per consentirne la fruizione ai tifosi, per restituirgli quel ruolo di moderna agorà che per decenni aveva egregiamente svolto, è sempre rimasto desolatamente chiuso e vuoto, orfano di quella linfa vitale che erano gli appassionati che lo popolavano e lo rendevano così unico.
Oggi sono trascorsi quattro anni dall’inaugurazione e tutto è desolatamente fermo, nulla essendo stato fatto in questi quattro anni.
Tempo fa, avevo letto di un personaggio particolare, che viveva alla foce del Po, facendo il barcaiolo, se non ricordo male. Ebbene, costui non aveva orologio e non sapeva cosa fosse una sveglia. Negli anni, il suo corpo ed ancor più il suo spirito, erano entrati così tanto in simbiosi col grande fiume, che percepivano il ciclico saliscendi delle maree e si adattavano a questo inesauribile ritmo primordiale.
Quando penso alle vicende della Fondazione Filadelfia, mi sovviene il ricordo di questo barcaiolo che, pazientemente, adattava la sua vita ed i suoi ritmi a quelli della natura, esattamente come pare che la Fondazione Filadelfia li abbia adattati a quelli della politica. Anni di stanca, in attesa di un repentino ed illusorio guizzo, nell’imminenza elettorale cittadina, per poi tornare a scorrere lenta e maestosa, nel suo inutile nulla.
Perché anche se è triste doverlo ammettere, ma oggi celebriamo (perché festeggiare sarebbe improprio oltre che irridente) quattro anni di quello che Cetto Laqualunque, il mitico personaggio di Antonio Albanese, definirebbe senza esitazione e senza timore di smentita, “una beata minchia”.
Lo dico con molta serenità e senza voler puntare il dito contro nessuno dei componenti del CdA, perché sulla loro buona fede e volontà di fare non ho dubbi, sia ben chiaro, anche se sul modus operandi di qualcuno degli enti che hanno indicato i membri del CdA, nel passato come nel presente, ci sarebbe da disquisire eccome e parecchio, anche.
Semplicemente constato che oggi, per dirla col barcaiolo, la marea è favorevole e non sfruttarla a dovere sarebbe delittuoso, oltre che il modo migliore per preparare il terreno ad altri anni di celebrazioni di “beate minchie”, ovvero di quello che i tifosi non vogliono ed il quartiere e la città non meritano.