Conversazioni - 13 giugno 2021, 09:01

Il "male" è parte di noi, ma lo nascondiamo nell'ombra e poi (sbagliando) lo rinneghiamo

Da Andersen a Stevenson, due racconti di fantasia da rileggere in chiave junghiana. Per cui la non accettazione di noi stessi ci porta inevitabilmente alla morte

Il "male" è parte di noi, ma lo nascondiamo nell'ombra e poi (sbagliando) lo rinneghiamo

Tutti conoscono lo scrittore Hans Christian Andersen. Tra le sue fiabe più note vi sono “La principessa sul pisello” (1835), e “I vestiti nuovi dell'imperatore” (1837). Voglio qui portare l’attenzione su un’opera meno nota ma ugualmente bella e importante: “L’ombra.

Ecco la storia per sommi capi: un letterato lasciò andare la sua ombra. Le permise di esplorare il mondo da sola e dopo anni, quando aveva assunto le sembianze di un uomo ed era divenuta ricca, tornò dal suo padrone, che non se la passava proprio bene. Anzi, per dirla tutta, sembrava proprio l’ombra di se stesso, come suggerisce lo stesso scrittore nel racconto. La fiaba non ha un lieto fine ma termina con l’ombra che prende il sopravvento e fa uccidere il suo corpo, l’uomo, lo scrittore. I riassunti non rendono mai la bellezza delle storie e sembra un peccato rovinarle sintetizzandole, ma rimando al testo per gustarne il ritmo, la tensione e il mondo immaginifico che crea. Qui ci soffermiamo sul contenuto: l’intellettuale muore. Sicuramente una storia triste questa ma anche significativa. Insegna molto soprattutto se interpretata alla luce degli scritti di Jung. Prima di passare alla teoria archetipica junghiana, intraprendiamo un viaggio immaginario geografico e temporale: andiamo dalla Danimarca di Andersen alla Londra della fine ‘800. Immaginiamoci una città buia e piovosa, fra le cui strade passeggiano e lavorano Dr. Jack and Mr Hyde.

Ecco lo scenario: uomini con un grande cilindro e un bastone si aggirano tra strade deserte. Una pioggia fina bagna tutto. In un laboratorio, uno scienziato, grazie a esperimenti chimici, riesce a dividere la sua anima in due metà: la parte buona, accettata da lui e dalla società e la parte cattiva, crudele che si spingerà fino all’omicidio. Come in un salto nel tempo vediamo la città immersa in un silenzio assordante e in un laboratorio chimico, quasi uno sgabuzzino, nascosto al mondo, lavora un chimico ossessionato dall’idea di dividere il bene da male, soprattutto nel suo animo. Dopo sfori e tentativi riesce a formulare il serio portentoso che prova su se stesso: tutto tace, le strade sono nebbiose e deserte, una pioggia fine inzuppa tutti i passanti e come un’ombra e nell’ombra agisce Mr Hyde. Un antidoto può trasformare Hyde in Jack, ma con il passare del tempo, l’ombra diviene sempre più forte e portentosa. Le sue azioni hanno conseguenze negative non solo per i malcapitati ma anche sullo scienziato stesso, che alla fine muore. Chiaramente questo romanzo di Stevenson si concentra di nuovo sul tema del doppio, del male, di quello che non ci piace che si trova in ognuno di noi.

Il chimico voleva dividere il bene e il male, ma dividendo e non accentando lascia vincere le forze che rifiutava. Le parti che non accettiamo di noi sono sempre con noi, ci seguono, scortano, inseguono, rincorrono e pedinano sempre e comunque, come la nostra ombra, anzi sono proprio la nostra ombra, rifiutarle e sopprimerle vuol dire rifiutarci e ucciderci. Accertarle e renderci conto di chi siamo, vuol dire vivere una vita integrata e più completa. Con questo non si intende che bisogna agire sul mare, sulla gelosia e sull’invidia, per esempio, ma bisogna constatare che dentro di noi abbiamo il male, la gelosia e l’invidia. Fra finta di essere perfetti, non porta a nulla se non star male. Mi viene in mente un’immagine mentre scrivo queste parole. Un uomo perfettamente vestito e profumato: con i capelli tagliati corti e ben pettinati che rifiuta delle sue escrezioni corporee tout court; ovvero vive credendo che non possa proprio produrre quello che considera un dramma corporeo: secrezioni, bisogni naturali, perdite di sangue, sputo. Mi immagino che dal naso gli esca una bella bolla di moccio proprio mentre cerca di fare bella impressione su una donna altrettanto ricercata quanto lui, una flatulenza mentre parla con il suo capo della prossima promozione. Sicuramente sono questi gli scherzi che l’ombra ci fa se non presa seriamente. Beh! Non proprio questi, trasportati ad un livello metaforico: magari facciamo scappare una persona che troviamo affascinante o ci tagliamo ogni possibilità di promozione.

L’ombra ci accompagna sempre, se noi corriamo corre e se noi ci sediamo si siede. Sta sempre dietro di noi, ci insegue, appena fuori dalla vista o proprio davanti ai nostri occhi, dipende dal sole. In qualsiasi luce diretta, noi proiettiamo un'ombra. L’Ombra non è solo un topos letterario ma anche un termine psicologico, di matrice junghiana, che fa riferimento a tutto ciò che non possiamo e non vogliamo vedere in noi stessi. Seppelliamo in una parte di noi nascosta all’io tutto ciò che non troviamo lusinghiero o, anche non familiare, insomma quello che non corrisponde a cosa pensiamo di noi, ma nascondere e sopprimere non vuol dire eliminare. Ciò che è lontano dalla vista non vuol dire che non ci sia. E, infatti, ci insegna Jung che emerge proprio nei momenti inaspettati come il moccio ci cola dal naso quando vogliamo apparire affascinanti.

Barbara Gabriella Renzi

TI RICORDI COSA È SUCCESSO L’ANNO SCORSO A LUGLIO?
Ascolta il podcast con le notizie da non dimenticare

Ascolta "Un anno di notizie da non dimenticare 2024" su Spreaker.
SU