Forza, resilienza e positività. La storia di Matteo Mondini è un inno alla vita, perché alla vita Matteo ci si è letteralmente aggrappato. Lo ha fatto attraversando un “inferno” lungo 7 anni, fatto di 37 operazioni in anestesia totale e costatogli l’amputazione di un bracco e un pacemaker al cuore. A cambiargli la vita per sempre, un incidente sul lavoro avvenuto il 22 ottobre 2010, quando aveva appena 28 anni.
Oggi Matteo Mondini è un marito, un papà di due bambini e soprattutto il testimonial della sicurezza sul lavoro in Italia. Il suo motto? “Si lavora per vivere, non per morire”. In questi giorni, Matteo è impegnato nei “Safety Days” presso gli stabilimenti di FPT Industrial, a Torino: 50 incontri, per un totale di 1.630 dipendenti coinvolti e un obiettivo: formare e sensibilizzare circa l’importanza della sicurezza sul lavoro.
Matteo Mondini ci dedica 10 minuti al termine dell’ennesimo incontro con gli operai che per parlargli e ascoltare la sua straordinaria esperienza di vita hanno fermato la catena della produzione. Lo sguardo è sempre sorridente, nonostante tutto. La volontà è precisa: fare del proprio dramma una missione.
Chi è Matteo Mondini?
Matteo Mondini è un invalido sul lavoro che all’età di 28 anni è rimasto vittima di un grave infortunio, rimanendo folgorato con la corrente elettrica. Oggi sono il testimonial della sicurezza sul lavoro in Italia e vado in giro per le aziende o scuole per sensibilizzare tutti su quanto sia importante lavorare in sicurezza.
Facciamo un passo indietro, qual è l’evento che le ha cambiato la vita?
Il 22 ottobre del 2010 ero stato chiamato in un negozio di abiti da cerimonia in fase di ristrutturazione per rinforzare una porta che dava sul retro del negozio. Mancava poco per terminare il mio lavoro, quando la proprietaria mi chiese di aiutarla ad abbassare la saracinesca. In quel frangente rimasi completamente folgorato con la corrente.
Da quel giorno è iniziato il suo calvario fatto di operazioni e anni difficili. Il momento più duro è stato il giorno in cui le hanno dovuto amputare il braccio?
Sì, ho subito 37 interventi chirurgici tra cui l’amputazione del braccio destro e l’impianto di un pacemaker cardiaco in quanto la corrente mi ha danneggiato la conduzione elettrica del cuore. Paradossalmente l’intervento dell’amputazione del braccio mi ha fatto scattare dentro una molla di dover fare assolutamente qualcosa affinché nessuno dovesse più soffrire quanto ho sofferto io.
Lei da quel momento ha fatto della sua tragedia personale una missione.
Esatto, ho trasformato la rabbia accumulata negli anni per via dell’ingiustizia subita in qualcosa di positivo e propositivo per gli altri.
Quanto è stato importante il supporto della sua famiglia?
Fondamentale, mia moglie aveva 27 anni quando ho subito questo gravissimo infortunio sul lavoro e mi è stata sempre accanto. Non sapevamo quale fosse la prognosi, non conoscevamo il calvario che avremmo dovuto affrontare nel corso degli anni. Eppure mi è stata accanto, ci siamo sposati e abbiamo avuto due splendidi figli. Sono la ragione per cui lotto, per cui sono vivo oggi.
Il suo è un inno alla vita, alla positività. Lei trasmette queste sensazioni ai lavoratori che anche oggi ha incontrato. Quando li ha di fronte e racconta la sua esperienza, cosa vede nei loro occhi?
Quello che stupisce di più è vedere l’attenzione con cui ascoltano la mia storia. Vuol dire che ne rimangono colpiti. Sento feedback positivi, l’obiettivo di questi incontri è sensibilizzare i lavoratori verso comportamenti sicuri: ad esempio di non improvvisarsi, di lavorare in sicurezza.
Quanto è importante che tanto aziende grandi quanto più piccole organizzino questi momenti di incontro e formazione, finalizzati alla prevenzione degli infortuni?
Io ringrazio FPT Industrial per avermi dato questa opportunità di sensibilizzare i lavoratori. Hanno fermato la produzione, permettendomi di incontrarli. Parliamo di 7 giorni di incontri, già 700 lavoratori coinvolti e altri da coinvolgere. Speriamo che altre aziende seguano l’esempio di FTP Industrial.
Quello che mi stupisce è che lei sia riuscito davvero a far scattare una molla e ora si prodighi per gli altri. Quando ha deciso di mettersi a disposizione delle persone?
Quando sentivo ai telegiornali o leggevo su un giornale di un infortunio o morto sul lavoro, sentivo il peso di essere sopravvissuto. Sentivo in me una vocina che mi diceva di fare qualcosa per gli altri, affinché queste tragedie non capitassero più. Parliamo di vite spezzate, di famiglie che versano lacrime amare.
Lei ha anche coniato un motto.
Sì, da questa mia missione è nato un motto: “Si lavora per vivere, non si lavora per morire”. Penso che ogni lavoratore abbia il diritto di salutare i propri cari la mattina, andare a lavorare e poi poterli riabbracciare sano e salvo al termine della giornata lavorativa.
Se potesse mandare un messaggio ad altri lavoratori, cosa si sentirebbe di dire loro?
Di utilizzare la testa quando si lavora, il pericolo è sempre dietro l’angolo. Di non improvvisarsi e usare i dispositivi di protezione individuale forniti dalle aziende. Penso che sia importante fare squadra, la sicurezza è un qualcosa da fare in squadra.
Ho fatto una promessa quando ero su quel letto d’ospedale, l’ho fatta a mia moglie e ai miei figli. La faccio a tutti i lavoratori che incontro: fino al mio ultimo respiro lotterò affinché la sicurezza diventi un bene per tutti.