Cesare Salvadori è morto domenica 8 agosto, ed è da domenica che mi dico che devo scrivere qualcosa per ricordarlo, come ho fatto in passato con tanti altri amici granata che ci hanno lasciati; ma chissà perché, ogni santa volta che mi avvicinavo al Mac per scrivere, qualcosa di impalpabile me lo impediva. Non un vero e proprio impedimento, che so, un lavoro o una visita improvvisa e inaspettata: no, piuttosto una sensazione fuori dal chiaramente percettibile, dal razionale, per cui mi allontanavo senza mettere i polpastrelli sulla tastiera e lasciarli correre, veloci e spontanei come sempre, a tirar fuori dal cuore quello che prepotentemente ne voleva eruttare.
Il perché l'ho capito oggi, giovedì 12 agosto, alle 19:13.
Sento squillare il cellulare, guardo, ed appare il volto di Cesare Salvadori, memorizzato assieme al suo numero di cellulare, nei contatti della mia rubrica.
Avete presente quando un gelido brivido di superstizione, quasi di paura, vi scorre giù per la schiena? Ecco. "Cesare è morto da qualche giorno” è stato il primo pensiero “non mi può telefonare, nemmeno dall’aldilà". Dopo questi primi shoccanti secondi, subentra la ragione: "Sarà qualche familiare, col suo cellulare" e così era. La moglie Barbara, con voce calma, e sa Dio dove ha trovato la calma e il coraggio di fare questa ed altre telefonate simili, si presenta e mi dice: "Cesare mi ha chiesto di fare alcune telefonate a persone cui teneva particolarmente, tra cui lei. Mi ha raccontato che molte volte avete bisticciato (ha proprio usato questa parola), ma poi vi siete chiariti, come due persone sincere e ammodo fanno, e avete continuato a lavorare per il bene della Fondazione e del Filadelfia. Lui apprezzava molto questo suo modo schietto di fare e mi ha detto di farle questa chiamata, a funerali avvenuti, per salutarla un'ultima volta e dirle che per lui era stato un piacere conoscerla e lavorare con lei in Fondazione".
Avevo un groppo in gola e non sapevo cosa dire, oltre a ringraziare e fare le mie più sentite e sincere condoglianze. Non mi vergogno di dire che durante la telefonata, due minuti di pura emozione al più alto livello, avevo le lacrime agli occhi e la signora Barbara se n'è accorta, esattamente come le ho ora che sto buttando giù, di getto, queste righe.
Con questo gesto, ancora una volta, benché non ce ne fosse alcun bisogno, Cesare ha dimostrato il gran signore che è stato in vita. Una persona di gran spessore umano e professionale, che ha dato un impulso determinante alla ricostruzione del Filadelfia: ha trovato un prato di sterpaglie e quando ha dato le sue dimissioni, il primo lotto era stato da poco inaugurato. Non gli è mai piaciuto scaldare poltrone od occupare posti a dispetto dei santi, giusto per farsi bello con una carica, come fanno in tanti. Quando si è reso conto che non c'erano più le condizioni per fare qualcosa di concreto, per portare a termine il lavoro che aveva iniziato e splendidamente condotto fino alla prima tappa, con classe si è alzato ed ha salutato, sommessamente, per impedire a chicchessia di usare lui o il suo nome.
Mi ha grandemente commosso questa telefonata e mi riempie di immenso piacere pensare che ho la fortuna, tutte le volte che lo vorrò tangibilmente ricordare, di poterlo fare toccando, di più, usando e onorando un oggetto che mi diede lui.
Suo padre era, come me, cacciatore e Cesare aveva in casa due armi a lui appartenute, ma di cui per la nuova legge sul possesso armi, doveva disfarsi, o cedendole o mandandole alla demolizione. Mi chiese se le volevo, che me le avrebbe regalate. Passai a ritirarle a casa sua, compilammo l'atto di cessione e i due fucili, una carabina e una doppietta, diventarono miei.
Presi dal portafoglio la cifra simbolica di cinque euro e lasciando Cesare interdetto glieli diedi: "Secondo una vecchia usanza, regalare le armi uccide l'amicizia e io non voglio che questo avvenga - gli spiegai - quindi con questi simbolici cinque euro io le sto acquistando, ma senza offenderti a offrirti un prezzo sensato". Ridemmo insieme di questa transazione tra uomini d'altri tempi e ogni volta che la splendida Beretta Pigeon, con calcio all'inglese e bascule incise di suo padre uscì con me a fagiani, gli mandai le immagini della giornata di caccia.
Stasera, prima di scrivere questo ricordo, ho aperto l'armadio dei fucili e ho stretto in mano quell'arma, come se fosse stata la sua mano, in un ultimo commosso addio.
Se già avevo tanti ottimi motivi per continuare la mia battaglia per la rinascita, non ricostruzione, rinascita, del Filadelfia, da stasera ne ho uno in più.
Grazie Cesare, un abbraccio, ovunque tu sia.