La Grande Fabbrica, grigia e operosa attorno alla quale orbitava tutta la città: economica, ma anche sociale, addirittura sportiva. Cosa è rimasto di quella Mirafiori? Oggi la missione è quella di rilanciare uno stabilimento in buona parte vuoto, ma che accoglie nuove vocazioni (green, soprattutto). Ma uno degli snodi cruciali risale a 13 anni fa. Il 2011, il giorno del referendum di Marchionne. Il voto che spaccò - è divide ancora - il mondo sindacale metalmeccanico. Da una parte i firmatari, dall'altra la Fiom.
Una vittoria di misura
E proprio i sindacalisti dei metalmeccanici Cgil ricordano e ripercorrono i passi dopo quell'evento. Il referendum interessò 5.130 lavoratori delle carrozzerie e i sì vinsero per poco - 54% contro il 46% - con il voto decisivo degli impiegati. Tra gli operai il sì prevalse per pochissimi voti. "In cambio di quell'accordo, che riduceva le pause, modificava i turni e limitava il diritto di sciopero, Marchionne aveva promesso piena occupazione, salari più alti e tanti modelli: uno scenario che non si è realizzato", ricordano da Fiom.
"I lavoratori erano sotto ricatto"
"Non vogliamo piangerci addosso e darci pacche sulle spalle - dice Gianni Mannori responsabile Fiom Mirafiori -, ma ripercorrendo le tappe del passato sappiamo che quel momento è stato uno spartiacque, non solo a Mirafiori e con Fiat, ma nelle relazioni industriali in generale". "I lavoratori erano posti sotto ricatto, ma l'esito fu molto meno scontato di quanto poteva sembrare. E ciò che accadde a Mirafiori, si ripeté anche negli altri stabilimenti".
La situazione attuale
E oggi? "I lavoratori sono scesi da 20mila a 15mila, le produzioni sono in calo e la fabbrica che fu aperta come promessa se avesse vinto il sì - conclude Mannori - la ex Bertone di Grugliasco, intitolata poi al capostipite Gianni Agnelli, è stata chiusa".
"Avevamo diritti conquistati in fabbrica e accordi che provavamo a far rispettare - aggiunge Nina Leone, delegata Carrozzeria di Mirafiori - e Marchionne ha cercato di toglierli. Dopo Pomigliano, arrivò anche da noi. Noi non abbiamo mai abbandonato il tavolo, ma sono gli altri che se ne sono andati per firmare l'accordo altrove. E noi abbiamo cercato di dare battaglia e labbiamo vinta: la differenza l'ha fatta il voto degli impiegati".
Una situazione che non è migliorata
"Oggi è anche peggio, però - ricorda Pino Capozzi, delegato impiegati Fiom -. Con Marchionne, all'epoca, era almeno possibile avere un dialogo, anche se su posizioni differenti. Ora è un rullo compressore, in cui si spende non per portare nuovi modelli o produzioni, ma per mandare una mail in cui si invita la gente ad andarsene. Peraltro in un mondo del lavoro in cui le tutele sono anche diminuite, con il Jobs Act".
"Nel 2010 il gruppo Fiat aveva 89mila addetti, ma per il contratto votarono solo in diecimila - sottolinea Fabio Di Gioia, delegato Enti Centrali -. Fatto così, non è stato un referendum. E il presente di oggi non è il futuro che ci avevano garantito allora". "Marchionne era stato messo lì per mettere la proprietà al riparo da ogni rovescio e per dare la Fiat in sposa a qualcuno".
E oggi, ammette il delegato, "forse non è nemmeno tanto vero che abbiamo il know how per fare auto. Un po' per la continua fuoriuscita di addetti, un po' per competenze che si formano altrove, dove vengono assegnate certe produzioni".
"L'idea di Marchionne e dell'azienda di avere una situazione in cui non ci fosse controparte arriva da prima del referendum - aggiunge Tito Gallo, delegato Presse -. Volevano una fabbrica senza rompiscatole e, dopo il referendum, fare sindacato dentro Mirafiori è stato molto pou difficile. L'azienda discuteva solo con le sigle firmatarie".
"La sconfitta iniziò nella divisione dei sindacati"
"I lavoratori hanno perso quel referendum nel momento in cui i sindacati si sono divisi - ricorda Giorgio Airaudo, segretario generale Cgil Piemonte -. La responsabilità fu dell'azienda e della proprietà. Marchionne fu uno dei tanti manager che hanno chiamato e che oggi, quasi, disconoscono e rimuovono. Se il sindacato fosse rimasto unito, sarebbe andata diversamente".
E sul referendum, ricorda: "A Pomigliano fu l'azienda a imporre il voto, mentre qui lo richiedemmo congiuntamente, mentre poi qualcuno si sfilò", dice Airaudo. "In quel voto pesava tantissimo il timore della chiusura della fabbrica. I salari tedeschi non si sono mai visti, ma solo cassa integrazione e spazi vuoti nello stabilimento". E oggi "Serve un piano per l'automobile, altrimenti a breve ci ritroveremo a una situazione tipo Ilva2, in cui ci diranno che ormai l'auto è finita".
Un conflitto che esiste ancora adesso, nelle aziende
"Ero appena diventato responsabile di Mirafiori, a quei tempi - conclude Edi Lazzi, segretario generale Fiom Torino -. I risultati arrivarono di mattina e quando si è capito che i si avrebbero prevalso, fu brutto. Ci fu un boato tra i sostenitori, mentre un nostro delegato ebbe un malore". "Fu una sconfitta più che dignitosa - aggiunge -, ma Marchionne iniziò il conflitto per togliere potere ai rappresentanti sindacali. Quella vicenda è ancora attuale: ciò che accade oggi nelle fabbriche è sempre teso a togliere potere ai delegati e il conflitto cresce in maniera esponenziale, da parte di sempre più aziende".