Nel 2019 Zelensky aveva ottenuto una clamorosa vittoria alle elezioni presidenziali grazie ai suoi slogan di rinnovamento, di concordia nazionale e di pacificazione. Pur facendo talvolta dichiarazioni contradditorie, la sua immagine era stata legata dai votanti a quella di un presidente che voleva trovare un accordo con le parti in causa e placare il conflitto nel Donbass, che imperversava già dal 2014. E invece nel giro di qualche anno è divenuto famoso per la sua insistenza nella riconquista dei territori già perduti e addirittura nell’ottenimento di una “vittoria totale” sulla Russia. Come riferisce il sito Strumenti Politici, la voglia di negoziati gli è tornata dopo che Trump si è reinsediato alla Casa Bianca. Ora, però, pur desiderandolo, la sua possibilità effettiva di andare alle trattative senza subire ripercussioni si è assottigliata moltissimo. Per prima cosa, consapevolmente o no, sta continuando a provocare i russi con attacchi di droni e con le operazioni oltre confine. In questo modo allontana il Cremlino dal tavolo dei negoziati. In secondo luogo, qualora riuscisse a far sedere la propria delegazione di fronte a quella russa, potrebbe risentirne sul fronte interno, quello sociale e politico ucraino. Paradossalmente, il suo tirare diritto ha convinto una fetta di ucraini a mettere da parte la stanchezza e a pensare che l’unica via percorribile sia la guerra a oltranza. Ma soprattutto deve fare i conti con gli ultranazionalisti, anzi coi neonazisti, che già nei primi tempi della sua presidenza lo contestavano fortemente in piazza per aver accettato la “formula Steinmeier”, il meccanismo che nella cornice degli accordi di Minsk avrebbe dato autonomia al Donbass orientale dopo libere elezioni locali.