Un Occhio sul Mondo - 28 giugno 2025, 09:00

'L'Iran non è l'Iraq'

Il punto di vista di Marcello Bellacicco

'L'Iran non è l'Iraq'

L'attacco israeliano all'Iran era già stato definito come “epocale” da parte dei più qualificati analisti esperti di Medio-Oriente, perchè mai era stata condotta un'azione di vera e propria guerra contro uno dei principali Paesi islamici che, per quanto definito “canaglia” da qualcuno, è comunque guida spirituale della corrente sciita che, pur se minoritaria nel mondo musulmano (solo il 20%), non lo è però nella Regione Medio-orientale.

Peraltro, mentre ancora si stava cercando di capire le possibili conseguenze che l'aggressione di Tel Aviv avrebbe potuto determinare, ecco arrivare l'attacco degli aerei americani ai siti nucleari che, al di là dei reali effetti conseguiti, che molto probabilmente non sono quelli trionfalmente annunciati da Trump nell'immediatezza, di fatto ha sancito il coinvolgimento di Washington nella guerra tra Israele e Iran.

E l'aggettivo per questo attacco USA è stato di difficile definizione perché, nonostante siano stati impiegati pochissimi aerei, le potenziali conseguenze devono ancora emergere nelle loro esatte dimensioni, che potrebbero essere globali.

In attesa che si possa meglio delineare una situazione, molto delicata ed estremamente volubile che, al momento, registra un fragilissimo “cessate il fuoco”, peraltro già violato da entrambe le Parti, quello che si può fare con una certa determinatezza è quella di contestualizzare ciò che sta avvenendo, rispetto al recente passato.

Un attacco come quello condotto da Israele e dagli USA è stato definito “preventivo”, al fine di impedire all'Iran di proseguire nel suo processo di arricchimento dell'uranio che, a detta degli attaccanti, avrebbe consentito a Teheran di disporre dell'arma nucleare, che avrebbe costituito per Tel Aviv (e più in generale per l'Occidente) una “minaccia esistenziale”. Il tutto sulla base di un rapporto dell'AIEA – Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica dell'ONU, che non ha mai parlato di intendimento iraniano di costruire una bomba atomica (come si è affrettato a precisare il suo Direttore Rafael Grossi), ma piuttosto di un processo di arricchimento giunto ad un livello superiore a quello necessario per la ricerca, ma ancora lontano per un uso militare.

Una storia che, in gran parte, ricalca quanto già successo in passato con l'Iraq, allorché invece di una bomba atomica, che nei fatti ancora non esiste, si accusò Baghdad di possedere un arsenale chimico-biologico di distruzione di massa che, ancora adesso, deve essere trovato. Tutto questo, sotto la l'enfatica e pressante regia americana, ma senza una “copertura giuridica ONU” (nessuna Risoluzione del Consiglio di Sicurezza al riguardo), portò alla costituzione di una Coalizione Internazionale di Nazioni volenterose, che diede vita alla cosiddetta Seconda Guerra del Golfo, che si pose ed ottenne lo scopo di abbattere il dittatore Saddam Hussein, sostituendolo con una nuova leadership gradita all'Occidente, ma soprattutto a Washington.

L'operazione si avviò con una prima fase trionfale nel marzo 2003, in cui lo strapotere della Coalizione sbaragliò in poche ore le Forze irachene, ma poi si arenò in una seconda fase per una labile stabilizzazione (questa si sostenuta da una Risoluzione ONU) che si protrasse sino al dicembre 2011, con un vero e proprio bagno di sangue. Un prezzo di vite umane pagato principalmente dal popolo iracheno, con stime intorno al milione di morti tra i civili, ma che coinvolse anche le stesse forze militari della Coalizione, con quasi 5mila soldati morti, di cui 33 Italiani e quasi 10mila delle nuove Forze Armate irachene.

Il risultato finale è l'attuale Iraq, che dal 2011 dovrebbe governarsi da solo, ma in cui sussiste una situazione politica instabile, che non gode della fiducia del mondo occidentale, nonostante ci sia ancora una sua presenza militare di assistenza con diverse migliaia di soldati (1100 sono Italiani), che continua ad essere sotto la minaccia di Gruppi terroristici sia sciiti che sunniti, di cui il maggiore è ancora l'ISIS.

Pertanto, si può affermare che, a distanza di 18 anni, il problema Iraq, ammesso e non concesso che sia mai esistito, perlomeno nella dimensione prospettata a motivazione del suo attacco, è ancora in buona parte irrisolto ma, in compenso, si può constatare che proprio l'intervento del 2003 ha probabilmente creato i presupposti per un locale superamento delle discordie tra Sciiti e Sunniti, in nome dei nemici comuni USA e Occidente.

A questo punto, ci si può chiedere se quanto successo con l'Iraq possa costituire un monito per un migliore approccio al “problema Iran”. La risposta può essere positiva, ma occorre considerare l'enorme differenza che corre tra l'Iraq del 2003 e l'Iran attuale.

Allora Baghdad era una Capitale pressoché isolata in ambito internazionale (solo la Russia protestò blandamente, in modo da continuare a poter fare i fatti propri) e invisa a gran parte del mondo islamico, per cui la caduta del suo Leader poteva essere generalmente considerata come un evento tutto sommato accettabile per tutti. Ma fu il modo protervo ed arrogante con cui avvenne che diede voce ed energia alla resistenza irachena, vanificando in gran parte il grandissimo sforzo della Comunità Internazionale. Tuttavia, il fallimento restò localizzato e non ebbe eccessive ripercussioni fuori dall'IRAQ, proprio per la sua condizione di isolamento.

Ma l'Iran non è l'Iraq perché, ad esempio, solo una parte limitata del mondo, con gli USA in testa, lo definisce “Stato canaglia”, mentre l'altra parte, che è la maggioranza, lo considera come una Nazione che assolve un ruolo da protagonista in un ambito regionale e con cui è normale intrattenere normali relazioni, di varia natura.

L'Iran è tutt'altro che isolato in termini strategici, essendo anche Membro dei BRICS dallo scorso anno, tra i cui scopi, oltre alla facilitazione delle relazioni commerciali, rientra l'affrancamento dal dominio monopolistico degli USA e del dollaro dei mercati finanziari ed economici.

Inoltre, è d'obbligo rammentare che, tra i suoi Paesi partner, Teheran annovera colossi mondiali come Russia e Cina. E' possibile affermare che, con la prima, gli Iraniani siano in credito, visto il notevole aiuto che hanno garantito a Mosca nei 3 anni di guerra con l'Ucraina, soprattutto in termini di armamenti. Una riconoscenza che la Russia sta per ora ripagando solo diplomaticamente, con una decisa e netta condanna degli attacchi israeliani e, ancor di più, di quello americano, ma che potrebbe assumere contorni ben più concreti, in caso di una continuazione della belligeranza.

Con la Cina, al momento, le relazioni sono di natura prettamente economico-commerciale, ma sono di un'entita' tale (400 miliardi di dollari) da imporre a Pechino la massima attenzione verso una guerra che la potrebbe danneggiare fortemente, nel caso di un Iran soccombente. Inoltre, l'Iran è tra i principali fornitori di petrolio del Dragone, che non può permettersi di perdere una delle sue maggiori fonti di approvvigionamento energetico.

E in un tale contesto, probabilmente la Cina non gradisce uno stravolgimento governativo a Teheran, con l'avvento di una nuova leadership, che potrebbe aspirare ad un partenariato diverso da quello attuale, magari più rivolto ad ovest.

Infine, l'aspetto religioso. Nei giorni scorsi si è riunita ad Istambul l'Organizzazione della Cooperazione Islamica, che include 56 Paesi di fede musulmana, sia sunniti che sciiti. In tale ambito, il Presidente turco Erdogan si è lanciato in una violenta invettiva contro Israele, accusandolo di essere la principale causa dell'instabilità mondiale e verso il suo Premier Netanyahu, paragonandolo al dittatore nazista Hitler. In merito alla guerra tra Iran ed Israele, confermando il sostegno a Teheran, ha ribadito la legittimità della difesa iraniana all'attacco di Tel Aviv. Ma probabilmente, il passo più importante del discorso del Leader turco è stato l'accorato invito a tutto il mondo islamico di superare le divisioni, adottando una posizione comune forte, per arrestare l'aggressione israeliana. In pratica, una “chiamata alle armi” di tutti i Musulmani che, per ora, è solo contro Israele, ma che un'eventuale escalation americana, potrebbe far estendere a tutto l'Occidente. E tutto questo potrebbe iniziare dalla difesa dell'Iran, perché, come detto, l'Iran non è l'Iraq.

Marcello Bellacicco

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