Il 27 agosto 1950, in una stanza dell’albergo Roma a Torino, Cesare Pavese metteva fine alla sua vita, lasciando un segno indelebile nella letteratura italiana del Novecento. A 75 anni dalla sua scomparsa, la figura dello scrittore piemontese resta centrale per il suo sguardo lucido, dolente e profondamente umano.
Nato a Santo Stefano Belbo nel 1908, Pavese fu poeta, romanziere, traduttore e intellettuale inquieto. Dopo gli studi a Torino, fu coinvolto nell'antifascismo, subendo il confino a Brancaleone Calabro. Il dolore dell'esilio, il senso di solitudine e il rapporto tormentato con la vita e l’amore attraversano tutte le sue opere, da "Il mestiere di vivere" ai romanzi come "La luna e i falò", "Il carcere" e "La casa in collina".
Traduttore dei grandi americani (Melville, Faulkner, Steinbeck), fu uno degli intellettuali più influenti della casa editrice Einaudi, contribuendo a formare una nuova generazione di lettori. Vinse il Premio Strega nel 1950, pochi mesi prima della morte.
“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Questo il messaggio che fu ritrovato nell’albergo in piazza Carlo Felice, prima di porre fine al suo tormento.
Il gesto estremo, oggi come allora, scuote e interroga. Ma la sua voce, limpida e tragica, continua a parlarci anche a 75 anni di distanza.