Il Cinquecento fu un secolo di passaggi, quasi un ponte tra due mondi. Da un lato, l’eco del Medioevo con i suoi castelli, le sue torri e i suoi signori in lotta; dall’altro, l’alba della modernità, con nuove idee, guerre europee che travolgevano le province, e stati sempre più forti che pretendevano obbedienza.
Non fu una svolta improvvisa, piuttosto un lento cambiamento, come il sorgere del sole dietro le montagne: prima le ombre, poi una luce sempre più chiara. La stampa moltiplicava i libri e le opinioni, la Riforma protestante scuoteva l’unità religiosa dell’Europa, mentre Francia e Spagna trasformavano l’Italia in un campo di battaglia.
In questo turbolento scenario, i nobili del Nord-Ovest d’Italia si trovarono davanti a una scelta che per secoli non avevano dovuto fare: o adattarsi al nuovo ordine, oppure rischiare di scomparire.
Protagonisti e nuove dinamiche
Il Ducato di Savoia: l’ascesa di “Testa di Ferro”
All’inizio del Cinquecento il Ducato di Savoia sembrava condannato: il Piemonte era in gran parte sotto occupazione francese, i castelli cadevano uno dopo l’altro e la dinastia sabauda appariva sul punto di sparire dalle cronache. Poi comparve lui, Emanuele Filiberto, il duca che la storia ricorda come “Testa di Ferro”. Cresciuto nelle armate di Carlo V, temprato da anni di guerre lontano dalla sua terra, rientrò deciso a ricostruire ciò che restava.
Il colpo di fortuna e di abilità politica arrivò con la pace di Cateau-Cambrésis (1559), che restituì ai Savoia gran parte dei domini perduti. Ma Emanuele Filiberto non si limitò a raccogliere i frutti del trattato: seppe reinventare il ducato. Trasferì la capitale a Torino, cuore più facilmente difendibile, creò un esercito permanente che non dipendesse dai capricci dei nobili, e riorganizzò lo stato con un’amministrazione più moderna.
Ai vecchi marchesi e conti che per secoli avevano vissuto come piccoli sovrani nei loro feudi, impose una scelta netta: entrare nell’orbita sabauda o sparire. Così si chiuse l’epoca dei castelli isolati e delle milizie private, lasciando il posto a uno stato più compatto e centralizzato, pronto a imporsi sulla scena italiana.
Genova e il mare: tra Andrea Doria e le congiure
Sul mare la storia correva con altri ritmi. La Repubblica di Genova, fragile e potente allo stesso tempo, era guidata dal genio di Andrea Doria. Ammiraglio carismatico, alleato della Spagna, trasformò la città in un crocevia essenziale del Mediterraneo.
Eppure sotto la superficie ribollivano tensioni antiche. I grandi casati – Doria, Fieschi, Spinola – si contendevano influenza e ricchezze. La congiura dei Fieschi del 1547 fu l’ultimo lampo di quell’antica anarchia: un tentativo di rovesciare l’egemonia doriana che si concluse con un fallimento drammatico. Da quel momento, anche a Genova i nobili capirono che il potere individuale non bastava più: bisognava piegarsi alla logica della Repubblica e delle grandi alleanze.
Le valli piemontesi: integrazione o declino
Nel Cinquecento le valli e le pianure del Piemonte vissero la fine della loro antica frammentazione feudale. I Paleologi del Monferrato, discendenti dei bizantini, si estinsero nel 1533 e il loro marchesato passò prima alla Spagna e poi ai Gonzaga di Mantova, segnando la fine di un’autonomia secolare. A sud, i marchesi di Saluzzo resistettero a lungo come ultimo stato indipendente, ma nel 1588 Emanuele Filiberto di Savoia annesse il territorio, costringendo i nobili locali a scegliere tra fedeltà a Torino o decadenza.
Nelle pianure del Vercellese e del Novarese, famiglie come i Tizzoni e i Caccia, abituate a governare con potere quasi assoluto, furono processate e ridimensionate dall’autorità sabauda. Nelle valli alpine, i Challant in Valle d’Aosta entrarono in conflitto con i Savoia, perdendo progressivamente autonomia, mentre i Valperga del Canavese seppero invece integrarsi, ottenendo cariche militari e ruoli alla corte ducale.
Molti antichi casati minori – Langosco, Aleramici e altri – finirono travolti da debiti, guerre e confische, vedendo rovinati i loro castelli e svanire secoli di potere locale. Così, tra colline, pianure e montagne, si chiudeva il capitolo medievale dei feudi ribelli e prendeva forma un Piemonte più compatto, sotto la guida sabauda.
I Grimaldi di Monaco: maestri di sopravvivenza
Nel Cinquecento il piccolo principato di Monaco visse sospeso tra due potenze ingombranti: Francia e Spagna. I Grimaldi non potevano contare su eserciti o grandi territori, ma seppero sfruttare la posizione strategica sul Mediterraneo. Con il trattato del 1524, si posero sotto la protezione di Carlo V e della Spagna: una scelta che garantì sicurezza, pur imponendo guarnigioni spagnole e qualche limitazione.
La popolazione mal sopportava talvolta la presenza straniera, ma i Grimaldi giocarono con abilità la carta della diplomazia, preferendo la prudenza alle sfide frontali. Mentre dinastie come i Paleologi o i marchesi di Saluzzo venivano cancellate, Monaco sopravviveva, protetto ma ancora autonomo.
Così, a fine secolo, il piccolo scoglio ligure-provenzale restava saldo nelle mani dei Grimaldi, esempio raro di resilienza politica in un’Italia travolta dalle guerre tra Francia e Spagna.
La nuova logica del potere
Il Cinquecento non era più l’epoca delle torri assediate e delle guerre tra castelli. Ora i giochi di potere si decidevano nei palazzi, nei consigli, nei trattati. Il prestigio non derivava dall’autonomia feudale, ma dalla capacità di ottenere un incarico alla corte di Torino o un ruolo nella Repubblica di Genova.
E sullo sfondo c’erano sempre loro, i veri arbitri d’Italia: Francia e Spagna. Spesso il destino dei nobili piemontesi e liguri si decideva lontano da casa, nelle sale di Madrid o di Parigi.
Anche la religione divenne un campo di battaglia. La Riforma protestante e la Controriforma cattolica non furono solo questioni di fede: furono strumenti di potere. Alcuni casati si avvicinarono alle nuove idee riformate, altri fecero della fedeltà a Roma una bandiera.
Dal Medioevo all’Età moderna
Il Cinquecento fu il secolo in cui l’anarchia feudale cedette il passo a stati più forti, capaci di imporre ordine. A volte quell’ordine era duro, ma segnava l’arrivo di una nuova epoca.
Emanuele Filiberto e i Savoia mostrarono la strada: potere accentrato, esercito stabile, capitale organizzata. A Genova, le famiglie dovettero piegarsi all’autorità della Repubblica. A Monaco, i Grimaldi si salvarono con astuzia diplomatica.
La nobiltà non scomparve, ma dovette imparare a muoversi in un mondo diverso, dove le battaglie non si combattevano più solo con le spade, ma anche con i consigli, i tribunali, i decreti.
Il Cinquecento, insomma, non fu soltanto il secolo degli intrighi e delle congiure. Fu il tempo in cui il Nord-Ovest d’Italia scelse la via della modernità, spesso con dolore, spesso con sangue, ma con una tenacia che avrebbe segnato la sua storia fino all’età contemporanea.
E nei luoghi di allora – Torino, Saluzzo, Novara, Vercelli, Genova, Aosta, Monaco – oggi ancora si respira quell’eco: l’eco di un secolo in cui castelli e corti, guerre e trattati, spade e penne scrissero insieme l’inizio del mondo moderno.





