Attualità | 22 settembre 2025, 17:18

Quando le donne diventarono elettrici

Il suffragio femminile e il voto del 1948

Immagine di archivio

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Il 10 marzo di 77 anni fa le donne, per la prima volta nella storia italiana, diventarono elettrici.  

L’orgoglio per questo importante traguardo di civiltà giuridica fu un primo gradino anche se segnato da un lapsus, subito corretto: il decreto luogotenenziale 23/1945 sul suffragio femminile riconosceva alle donne l’elettorato attivo, ma non quello passivo. Potevano votare, ma non essere elette. Si capii presto la grinta delle donne quando nel discorso di insediamento alla Camera la deputata Cingolani rivendicò che il voto alle italiane non era «un premio ma un diritto». 

Le donne hanno sempre dovuto faticare per essere rappresentate. Anzitutto le deputate dell’Assemblea Costituente furono soltanto 21 su 556. Soltanto nel 1960 una storica sentenza della Corte costituzionale cancellò una legge del 1919, in quel tempo ancora in vigore, che le escludeva da tutti gli incarichi pubblici. A seguire nel 1965 furono ammesse al concorso in magistratura, nel 1981 in Polizia di Stato e solo venticinque anni fa nei ruoli militari. 

Non va meglio in ambito politico-istituzionale: dal primo Governo della Repubblica italiana a oggi, neanche il 10% sono state le esponenti di sesso femminile, senza contare che sebbene abbiamo avuto donne al vertice della Corte costituzionale, della presidenza del Senato e della Corte di cassazione e, da quasi tre anni, alla Presidenza del Consiglio, ancora non c’è stata una Presidente della Repubblica e neanche una Ministra dell’economia. 

È curioso pensare come ancora sia necessario soffermarsi su determinati stereotipi che segnano il divario tra uomo e donna. Ed è ancora più strano pensare che emergano quando si parla di lingua italiana, nata quasi mille anni fa e continuamente semper reformanda

In molti paesi del mondo si combatte per la libertà di scoprire il volto, mentre in Italia si dibatte sul modo corretto di chiamare una donna in determinati contesti sociali e professionali dimostrando mancanza di autonomia anche quando si ha a che fare con l’uso della nostra splendida lingua. 

Qualche anno fa Beatrice Venezi, la più giovane donna in Europa a dirigere un’orchestra, disse: «La posizione (o il mestiere) ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra».  

È stato chiesto anche il parere all’Accademia della Crusca, la più autorevole istituzione linguistica italiana, che ha spiegato che non è sbagliato farsi chiamare direttore anche quando la posizione sia occupata da una donna. In certe circostanze la sostanza è sinonimo di forma. In italiano il genere neutro non esiste. Non sono i sessisti a declinare i nomi al maschile o al femminile, ma è la lingua italiana. È solo una prassi quella di utilizzare il genere maschile per alcune professioni ricoperte da donne, tradizionalmente vietate o di esclusivo retaggio maschile. 

La lingua ha una straordinaria capacità di cambiare ma ha bisogno di tempo e non di forzature. Assorbe la realtà ma la digerisce con più calma.  

Nessuno può obiettare che in fatto di parità tra i generi siamo ancora in un periodo di transizione. E la transizione lessicale deve essere una libertà nell’uso, non un obbligo. E se ad esempio la direttrice d’orchestra avesse solo avuto la libertà di abusare del genere maschile, di fare una cosa che gli uomini non possono fare e cioè di usare il genere femminile? Un uomo non potrà mai farsi chiamare direttrice ad esempio. Ecco, magari con il suo gesto ha dimostrato un privilegio, un’innocua rivalsa verso gli uomini, costretti a un ventaglio di desinenze più ristrette rispetto a quelle disponibili alle donne. 

Nel mentre di questa polemica ho ripensato a un biglietto di auguri natalizi che ricevo da qualche anno da un Questore della Repubblica italiana donna. Sulla carta intestata, in alto a sinistra, c’è scritto «Il Questore della Provincia di ...». Non avevo mai fatto caso alla declinazione al maschile da lei scelta. Né avevo fatto attenzione a questa formalità, quanto invece alla sua preparazione, alla sua intelligenza, alla sua determinazione e soprattutto alla sua femminilità che non ha mai voluto appannare per lasciare spazio al becero femminismo. 

È importante che le donne raggiungano gli stessi obiettivi degli uomini, che gli sforzi siano riconosciuti a pari merito e che abbiano le stesse possibilità che hanno gli uomini. 

La lingua italiana non esclude le donne dalle conquiste linguistiche e non le obbliga a usare il genere femminile perché, comunque, sono biologicamente diverse dagli uomini. Pertanto non devono avere solo pari diritti, ma anche pari dignità.

Pierluigi Lamolea

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