Oggi è il Santa Maradona Day. Un evento partito dalla raccolta fondi per l’Istituto di Candiolo tramite la vendita dell’edizione limitata della sceneggiatura del film cult di Marco Ponti, in occasione dei 25 anni della pellicola. Il progetto ha coinvolto gli attori come Stefano Accorsi e lo stesso regista. L’iniziativa sarà presentata alla Libreria Luxemburg e sarà seguita dalla proiezione del film al Cinema Massimo. Ma l’amore dei torinesi per Santa Maradona, si è diffuso in fretta e al Maradona Day hanno aderito anche altre realtà, come il Pastis dove si potrà andare a trascorrere la serata dopo la proiezione, o il gelato ad hoc pensato da Alberto Marchetti il cui ricavato sarà donato sempre all’Istituto di Candiolo.
“Quando si fa una cosa che funziona, poi altri ti seguono. Il progetto ha generato un’enorme ondata di generosità dagli appassionati e venerdì consegneremo un assegno da 50 mila euro. Cui si aggiungeranno forse circa 20 mila provenienti dal merchandising” commenta Marco Ponti.
Il regista di Avigliana ha esordito alla regia di un lungometraggio proprio con Santa Maradona. Oggi lo ritiene ancora attuale e quanto quella generazione di trentenni assomiglia a quella di oggi?
“All’epoca non c'era il desiderio di raccontare una generazione, si parlava di temi che erano universali come cosa succede quando diventi grande, quando il mondo ti mette alla prova. Il film continua ad avere un seguito, i trentenni continuano a ritrovarsi nell’incertezza del trovare lavoro. Direi che forse oggi è ancora più attuale. Una ventina di anni fa c’era il concetto di futuro e di cambiamento, ora è più difficile per un ragazzo avere quel tipo di ambizione. Il concetto di futuro si è accorciato, all'epoca si pensava sempre in tempi più lunghi. Colpa delle incertezze che riducono quello sguardo. Il pregio del film è che tenta di allargare quello sguardo, è un film di grande fiducia e speranza che oggi vedo nei teenagers. Una cosa che dà a tutti una bella speranza”.
Celebre la citazione sulla città di Pinerolo, che fa riferimento alla vita di provincia, oggi cosa ne pensa?
“Pinerolo in realtà è una città che mi piace, di provincia, io stesso arriva dalla provincia. Per me era un’anticipazione del fatto che ovunque tu sia, puoi avere tutto quello che vuoi”.
Il film è ricordato anche per l’interpretazione di Libero De Rienzo, qual è il ricordo più bello che ha di lui?
“Con Libero ce ne sono tantissimi. È stato molto bello percorrere un pezzo di viaggio con lui, mi manca tanto. Era una persona che si sapeva far volere bene. Quando hanno illuminato la Mole con il suo volto è stato emozionante. Vuol dire che c’è tanto affetto per lui, che le persone lo vedono come se fosse un amico che è uscito un attimo, non che se n’è andato per sempre”.
Il finale del film è aperto, libero alle interpretazioni, ma lei cosa si sarebbe augurato per i protagonisti?
“Gli auguravo di farcela, di alzarsi da quel divano e di cambiare le cose, di dare slancio al loro sguardo rivoluzionario. Che poi è quello che mi auguro a me e a tutti. Non fare avanti e indietro dal divano, ma allontanarsi con la speranza di fare qualcosa di buono. Occorre tentare, agire, anche sbagliando, non bisogna avere paura di tirare questo calcio di rigore. Come diceva De Gregori, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia. La paura di sbagliare oggi è molto forte, piuttosto che sbagliare si tende e non fare. Il fallimento è più complicato da gestire, ma le più grandi imprese derivano da grandi fallimenti”.
Lei ha girato nella Torino degli anni 2000, il film è uscito prima delle Olimpiadi, come è cambiata la città e il suo rapporto con il cinema?
“Il nostro film era pionieristico perché il cinema era sbarcato da poco a Torino. C’era anche da superare una serie di piccole difficoltà. Oggi la città si è sbloccata, attira piccole e grandi produzioni. Non eravamo preoccupati di fare una fotografia di Torino com’era allora, ma come ci sarebbe piaciuto che fosse: colorata e dinamica. In parte è quello che è poi diventata, ma all’epoca era vista come grigia e noiosa, senza turisti. Questa è la forza della fantasia, se hai una fantasia sufficientemente potente è possibile che si trasformi in una realtà. Bisognerebbe fare lezione di fantasia nelle scuole. È un muscolo che alleniamo troppo poco”.
Cosa ne pensa del ruolo che ha giocato la Film Commission?
“Quello è stato un volano, se è facile girare alle persone viene voglia di fare film. La Film Commission senza il genio creativo non serve e viceversa, senza un’organizzazione pratica non riusciamo a lavorare. È un bel modo di vivere insieme in sinergia”.
Davide Ferrario sostiene che a Torino forse manca un vero e proprio tassello della formazione cinematografica, lei cosa ne pensa?
“Non trovo ci sia una mancanza. Torino è una città laboratorio, è per chi fa i primi passi. Poi siamo un Paese piccolo, raggiungere Roma non è difficile. Non vedrei neanche utile un Paese in cui la filiera del cinema resta in una sola città”.
Tra i progetti futuri di Marco Ponti, ce n’è uno a Torino?
“Torino e il Piemonte sono casa mia, un posto che amo. Il progetto più caro che ho in mente è assolutamente legato al territorio, sarà un grande ritorno al mio km 0, ma questo ritorno me lo devo meritare, devo esplorare altre parti. L’arte del ritornare deve essere sviluppata bene”.