Ci sono le storie con un capo e una coda, quelle fatte per sorridere e quelle scritte per piangere. Questa storia è iniziata e non è finita ed è piena zeppa di immagini e analogie, che servono a capire meglio il mondo perché ne delineano i contorni ma non lo definiscono.
Le analogie ci aiutano a cercare il noto nello sconosciuto e sono degli occhiali che fanno scoprire quello che ancora non si sa. Questa storia la racconta una viaggiatrice non giovane e non vecchia, non intelligente e non stupida, una viaggiatrice come tante con il suo sacco in spalla. Ecco come si presenta la nostra viandante: “Quando si viaggia ci si porta dietro un bagaglio a volte piccolo e a volte grosso di pregiudizi positivi e negativi ed esperienze positive e negative, come un sacco di patate pesa sulla nostra schiena e forma una gobba. Tutti abbiamo la nostra gobba visibile e invisibile, tenerne conto non fa male. La mia non ve la racconto ma dico che c’è, così non ve ne abbiate a male se i personaggi incontrati sono un poco veri e un poco il prodotto di questa gobba esperienziale, del mio sacco pesante e presente. Questa è comunque una storia, cari ascoltatori e ascoltatrici, e non un trattato scientifico; quindi, la logica e le regole del pensare non sono nel mio sacco. Ci sono solo patate e pensieri passati. Viaggi antichi e contemporanei”.
Dopo tanto gironzolare la nostra viandante arrivò in un paese fratello, in fondo germano è chi è nato dallo stesso fratello o dalla stessa sorella. Quindi la nostra pellegrina pensava di trovare un luogo simile a quello da dove era partita: il Sud. Dopo tanto girovagare pensava di ritrovarsi in luoghi somiglianti a quelli della sua infanzia e gioventù e forse non aveva tutti i torti a questo proposito. Infatti, incontrò subito gli uomini scartoffie. Voi non crederete alle vostre orecchie ma erano persone completamente formate da fogli che andavano in giro con timbri. Avevano le dita a forma di timbro e anche un bel timbro in fronte. Ancora prima di presentarsi le misero un bel timbro in fronte che diceva: “Ci vogliono più certificati anche le loro traduzioni!”. Le persone scartoffie non erano antipatiche o cattive, ma avevano una voce monotona come un disco rotto e capivano solo il burocratese, una lingua complessa e poco adatta alla mente dei viaggiatori.
Per imparare il burocratese ci volevano anni di studio in un luogo mitico e fantastico, simile al castello di Kafka, che si trova nel luogo nel “non dove” e per raggiungerlo bisognava arrampicarsi su un mare di scartoffie, anzi un monte, cosa dico! Questa era un’impresa difficilissima e molto pericolosa; infatti, si era sicuri di perdere il prezioso tempo della vita e c’era anche il pericolosissimo rischio di trasformarsi in una vera e propria scartoffia, che poi sarebbe diventata il cibo degli uomini-scartoffia stessi. La nostra viaggiatrice, comunque, dopo aver ricevuto il timbro in fronte si dedicò alla ricerca dei documenti e delle traduzioni come se nella vita non ci fosse altro da fare, come mossa da una forza interna, come se fosse stata posseduta da uno strano elemento, non umano. L'inchiostro del timbro era penetrare nel suo sangue e la dirigeva. Le azioni erano meccaniche: doveva assolutamente portare gli incartamenti alle persone scartoffie; anche perché ne valeva della loro vita. In fondo la nostra viaggiatrice lo fece per empatia, senza carte, pratiche e fascicoli gli uomini scartoffie sarebbero morti di fame. E lei non lo poteva permettere. Poi a dire il vero questo le ricordava tanto la sua terra natia, dove gli uomini scartoffie avevano una bella comunità e anche loro mangiavano documenti per sostenersi, molti dei quali venivano autoprodotti dai residenti: infatti nella sua terra natia le autocertificazioni erano il cibo principale. Invece qui ci volevano solo certificati timbrati, più difficile da procurarsi: il che fece pensare alla nostra viaggiatrice che forse l’inchiostro del timbro dovesse essere un nutrimento fondamentale per le persone scartoffie e sicuramente migliore delle autocertificazioni.
Personaggi mitici e strani popolavano la terra del paese fratello e gli uomini-scartoffie furono solo il primo di una serie di incontri favolosi e leggendari. Nel suo peregrinare, in seguito, incappò una serie di uomini-orologio: avevano una forma strana, visto che l’orologio occupava gran parte della loro pancia e camminavano come pinguini. Avevano proprio la forma di pinguini, a dire il vero, con quelle movenze ondulanti, da lontano, sembravo fluttuare e dondolare un poco di qua e un poco di là. La pancia era un grande orologio che batteva i minuti e i secondi. Con la mano segnavano sempre qualcosa sul loro petto, scrivevano chi e cosa non rispettava il tempo. Avevano tutti i nomi e i cognomi dei ritardatari. Gli uomini-orologio erano molto molto tristi perché i treni arrivavano sempre in ritardo di almeno sei minuti. Purtroppo, i treni avevano contratto questa malattia: “la ritardite” e sembrava non ci fosse nulla da fare. Una volta entrata nel sistema diveniva endemica. La nostra viaggiatrice non sapeva come aiutare: gli uomini-orologio piangevano e smaniavano ma comunque tutto questo singhiozzare e lagnarsi non portava a nulla, lei lo sapeva bene. Nel paese da cui proveniva la ritardite era cronica e, a volte, c’era anche l’assenteite, ovvero i treni e gli autobus sparivano proprio e non si presentavano agli appuntamenti. Venivano inghiottiti in un buco nero, che viaggiava soprattutto in certe zone del suo paese e compariva e spariva come per magia, e autobus e treni scomparivano per sempre. Nessuno scienziato, investigatore privato o pubblicato era riuscito a capire come e quando si formasse questo buco nero, mai lei aveva il sospetto che scienziati, ingegneri e medici del suo paese in fondo non si erano bene applicati per risolvere la situazione create dall’assenteite e per capire le ragioni del buco nero migrante che compariva e spariva a suo piacimento ingoiando solo mezzi di trasporto.
Per lei la situazione nel paese fratello non era così grave: certamente capiva gli uomini-orologio ma veramente non poteva aiutarli. Non vi era nessuna medicina che conosceva che potesse curare il sistema ferroviario. Il suo paese natio non ne aveva scoperta nessuna e nemmeno le regioni terrestri che l’avevano ospitata precedentemente. Insomma, lei non poteva essere d’aiuto e se ne dispiaceva. Visto che non poteva far nulla e non le piaceva stare con le mani in mano, continuò il suo viaggio. Passo dopo passo, proseguì a spostarsi nel paese e fece vari incontri interessanti di cui non vi sto qui a dire, altrimenti non finiremo mai la lista. Mi soffermerò solo sugli uomini ghiaccio. Erano uomini freddi - come poteva essere altrimenti, erano di ghiaccio! Non si potevano toccare ed emanavano un alone di freddo tutt’attorno, la nostra viaggiatrice infatti aveva sviluppato una sorta di raffreddore cronico nelle loro vicinanze e devo dire che non era l’unica. Quando si avvicinavano lei iniziava a starnutire e non la finiva più. Una volta, però, accadde qualcosa di inatteso: notò da lontano un riverbero, si avvicinò all’uomo di ghiaccio e vide un fuoco al suo interno. Era il fuoco della passione e, se stimolato su certi argomenti, l’uomo di ghiaccio emetteva lingue di fuoco. Fra questi temi, si annoverava anche un gioco molto popolare nella terra natia della nostra viaggiatrice. Parlo di un gioco di squadra dove i giocatori devono seguire il pallone e prenderlo a calci. La nostra viandante non comprendeva questo amore spassionato per un gioco del genere ma non lo discuteva. In fondo, ognuno aveva le sue passioni. A lei piaceva viaggiare e conoscere uomini e terre diverse.
In realtà, dopo un minimo di osservazione, si accorse che il fuoco dentro gli uomini ghiaccio divampava per argomenti diversi a seconda di chi si aveva di fronte. Non solo, alcuni, oltre alla fiamma, al loro interno avevano un piccolo cavaliere di altri tempi con spada, lancia e armatura lucente, che sedeva su un destriero bianco e che reggeva la fiamma in una fiaccola di un metallo pregiato. Questa torcia sembrava antica, contornata da un alone di romanticismo che la viaggiatrice trovava difficile da spiegare. Ecco si potrebbe dire che era una lingua di fuoco che raccontava di cose antiche. Infatti, questo fuoco parlava a chi lo sapeva ascoltare. Bisogna certo tendere le orecchie per bene e tutto un mondo romantico ed estetico emergeva. Un universo di immagini preziose, idoli e miti. La nostra viandante non lo comprendeva completamente e ne era un poco spaventava. Aveva paura che il fuoco potesse un giorno divampare sciogliendo gli uomini di ghiaccio e creando una inondazione ma sapeva che le sue paure erano incomprensibili come i simboli che intravedeva nel fuoco stesso. La nostra pellegrina distratta dagli uomini mitici incontrati non aveva notato la grande cicatrice ancora non completamente chiusa che separava questa terra, una cicatrice che divideva l’est e l’ovest del paese. Percorrendola si accorse che ad ogni passo avrebbe potuto ascoltare storie di infinita tristezza: in fondo la cicatrice era il segno di una ferita inferta dal passato che ancora non si era chiusa completamente.
Le storie, quelle, non sto qui a raccontarle. Ve le racconterà la gente del posto quando andrete lì. Qualcosa che vi posso dire è lo stupore della viaggiatrice quando si accorse che non solo esisteva una grande cicatrice ma che lo stesso terreno su cui viaggiava era, in molte zone, in realtà, ghiaccio, coperto da foreste e erba e sotto il ghiaccio bruciava il fuoco di un romanticissimo antico. Si chiedeva bene cosa fosse questo fuoco. Era passione sicuramente ma lei non era abbastanza esperta per comprenderne le radici e le ragioni. Vide il fuoco – lo slancio passionale, e il ghiaccio – la freddezza operativa - come due aspetti del paesaggio e si chiese veramente dove fosse. La viaggiatrice è ancora lì intenta a esplorare il fuoco e il ghiaccio, sa per certo che questo non si trova nella sua terra natia dove il fuoco è evidente e dura di meno e il ghiaccio si trova solo in frigo per conservare gli alimenti.