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Immortali | 02 settembre 2020, 07:52

La pagella di tre lustri granata: che voto diamo a Cairo?

Tre sono gli aspetti che ritengo vadano presi in esame, ovvero i risultati sportivi ed economici, il rispetto della storia e dei valori morali della società, il coinvolgimento con la società civile torinese ed i tifosi.

La pagella di tre lustri granata: che voto diamo a Cairo?

Cade in questi giorni il quindicesimo annivesario dacchè Cairo divenne proprietario del Torino, rilevandolo burrascosamente da Giovannone e dai Lodisti che l'avevano salvato dall’oblio sportivo e quindi è d'obbligo stilare un bilancio di questi tre lustri di presidenza.

Per evitare di cadere nel frettoloso e mai obiettivo giudizio di pancia, in cui la simpatia o l’antipatia prevalgono ed il voto in pagella non rispecchia appieno il valore del candidato che si sta giudicando, stabiliamo a priori dei parametri su cui basare il giudizio.

Tre sono gli aspetti che ritengo vadano presi in esame, ovvero i risultati sportivi ed economici, il rispetto della storia e dei valori morali della società, il coinvolgimento con la società civile torinese ed i tifosi.

Per quanto riguarda il primo aspetto, prima di motivare il giudizio  dobbiamo fare un piccolo passo indietro nella storia granata. Dalla sua nascita fino a metà anni novanta, il Torino era una squadra di serie A che, per sbaglio, due volte era caduta in B. Dopo quegli anni, siamo diventati una squadra di serie B che  per sbaglio, di tanto in tanto tornava in A. Poi il fallimento. Il salvataggio dei Lodisti, che anime pie e granata ma che, calcisticamente parlando, “a l’aviu nen i sold da fè balè ’n borniu”, come si dice a Torino. Giovannone nulla aveva da spartire con i Lodisti, come impegno sportivo e passione granata e Cairo ebbe vita facile a subentrargli. E fu inizio col botto, centrando una promozione al cardiopalmo di quelle che restano impresse indelebilmente nella Leggenda Granata e nel cuore della gente del Toro. Ma poi di nuovo la B, su e giù. Finalmente la risalita e la stabilizzazione, seppur con alti e bassi, in serie A, che tuttora divide la tifoseria. Se per i giovani rimanere in A è un successo e stare dalla parte sinistra della classifica è una preziosa ambizione da coltivare, per i più attempati che hanno visto Pulici e Graziani e poi Lentini e Martin Vazquez, senza stare lì a scomodare gli Immortali, è uno svilimento di un blasone consolidato in quasi un secolo di storia. Quindi, al netto di averci imposto cinque anni del peggior non gioco mai visto su un campo di calcio, frutto del più sopravvalutato e spocchioso allenatore mai sedutosi sulla panchina granata prima ed azzurra poi, possiamo dire che sportivamente tra i due estremi di una retrocessione da una parte e di un derby ed una vittoria storica al San Mames di Bilbao dall'altra, minimo e massimo del quindicennio, abbiamo visto tanta mediocrità a cavallo della linea di mezzeria tra la destra e la sinistra della classifica. Pienamente rispettato  invece, il mantra societario del pareggio di bilancio, con il braccio che, nelle rare volte in cui raggiungeva il portafoglio  era per metterci soldi dentro, non per tirarli fuori.

Ma tutto sommato, un sette, magari un po' stiracchiato, come lui ha dciso di autoassegnarsi, ci sta anche e glielo concedo.

Sul fronte della comprensione di cosa aveva acquistato, con il Torino, iniziano invece le dolenti note. A parte la battuta attribuitagli ad inizio presidenza, quando gli chiesero come intendesse muoversi per il settore giovanile e lui rispose “ma io ho acquistato solo la prima squadra!” lasciando tutti basiti, non credo si sia mai perfettamente reso conto che tutte le squadre di calcio non sono semplicemente una società per azioni che si occupa di far correre undici giovanotti dietro un pallone, oltre ad essere il circenses moderno che la politica usa come arma di distrazione di massa per il popolo, sono anche, se non soprattutto, dei crogioli di passione popolare.

A maggior ragione per il Torino, dove da sempre la suddivisione tra nobili bianconeri e popolani granata di fine ottocento, inizio novecento, si era ancor più accentuata negli anni sessanta, arrivando a connotati quasi politici e sindacali ed assumendo valori di divisione sociale e di classe marcatissimi. Tratti oggi decisamente più sfumati, ma sempre presenti, soprattutto per i diversi approcci al passato ed alle tradizioni, che le due tifoserie torinesi hanno sempre dimostrato di avere.

Ebbene, in quindici anni, Cairo è entrato due volte nel museo che racconta la Leggenda della squadra di cui lui è proprietario, mai insataurando un rapporto di collaborazione.

Ci ha messo nove anni per decidersi a tirare fuori soldi, sebbene pochi, per migliorare la parte sportiva del Filadelfia sponsorizzando la sala relax, quando sarebbe stato nelle sue possibilità e nei suoi doveri rifarlo tutto, quella “culla di speranze, di vita e rinascita” come lo definì Arpino (bianconero, ma che aveva capito molto meglio di tanti granata i valori del Toro) dal principio alla fine, in prima persona, come Torino FC, ovviamente.

E anche quando sale a Superga, se lo lasci dire, non perde occasione per far comizi e mettersi al centro della scena, quando tutti ben sanno che i veri protagonisti sono gli Immortali ed il rispetto ad essi dovuti. Quindi.

Sotto questo aspetto l'insufficienza ci sta tutta ed un bel cinque pieno se lo prende tutto.

Ho lasciato per ultimo l'aspetto per il quale rivolgo a Cairo la maggior critica riguardo al suo quindicennato in granata. Il coinvolgimento di società civile torinese e tifosi.

Quando dopo settimane di interminabili serate, passate dai tifosi sotto il municipio in attesa di notizie, apparve Riccardo Caldara, portavoce di Chiamparino, ad annunciare il termine delle tribolazioni (o forse no), per la piazza l'emozione fu paragonabile ad una vittoria dello scudetto.

Se a questo ci aggiungiamo l'incredibile ed inattesa promozione dopo i playoff contro il Mantova, si può intuire l'enorme capitale di entusiasmo popolare che in quel momento Cairo aveva in mano. Avrebbe potuto tenere per se il cinquantuno per cento delle azioni granata, conservando così una solida maggioranza nonché l'indipendenza operativa più totale, e cedere il rimanente quarantanove per cento, suddividendolo in pacchetti maggiori, da condividere con i granata più abbienti, che dal 1935 avevano dato vita al Circolo Soci, formando quel tessuto di tifosi vip, col portafoglio non abbastanza guarnito da comprare la società da soli, ma più che sufficiente per affiancare sostanzialmente i vari Novo, Pianelli, Sergio Rossi di turno, quando si trattava di fare il colpaccio sul mercato ma mancava qualche soldo a completare la cifra. Sovente, davanti ad una grappa, dopo cena, i soci più abbienti tiravano fuori il libretto degli assegni e lasciavano cadere nelle tasche del presidente il soldo che mancava a fare una lira. Gente che inoltre non disdegnava di mettere gratuitamente le proprie competenze professionali al servizio del Torino, quando serviva.

Invece oggi abbiamo un Circolo Soci che non possiede nemmeno una singola azione, anche solo simbolica, che giustifichi il suo glorioso nome e che gli consenta di affiancare la presidenza. Stesso discorso vale per i tifosi, che avrebbero potuto partecipare con un azionariato diffuso, che avrebbe moralmente arriccchito il loro già pesante status di veri appassionati con l'orgoglio di essere anche, seppur in piccola parte, anche proprietari del loro sogno, del loro amore.

Un tifoso/proprietario, giusto per dirne una, acquista merchandising ufficiale, che arricchisce la società e gli consente di avere più soldi da spendere sul mercato, non i tarocchi delle bancarelle, che arricchiscono chi li produce e chi li vende, senza un ritorno positivo per la squadra.

Un tifoso/proprietario, giusto per dirne un'altra, prima di intonare un coro razzista o esporre uno striscione offensivo,sapendo che provocherà multe che saranno pagate anche con soldi suoi, ci penserà due volte. Insomma, un coinvolgimento virtuoso di società civile granata e tifoseria, che non avrebbe che potuto giovare al Torino e quindi a Cairo, senza peraltro limitarne l'autonomia decisionale.

Un errore grave, dettato da miopia, che gli costa un pesantissimo quattro.

Facendo quindi la somma di questi tre parametri di valutazione, esce un sedici, da dividere in tre, che porta alla media del cinque e mezzo, arrotondato per eccesso.

Si tratta senza ombra di dubbio di una insufficienza, anche se rimediabilissima. Nella compilazione di questa pagella, volutamente, non ho tenuto conto della stagione che sta nascendo in questi giorni, su cui non sarebbe sensato emettere giudizi frettolosi e basati su fatti in divenire.

Bene, Cairo ha l'opportunità di usare questa stagione alle porte per guadagnarsi la sufficienza ed il diploma da Presidente del Toro, cosa che in questi tre lustri non è ancora stato. Non la sprechi.

Domenico Beccaria

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