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| 16 gennaio 2021, 10:00

La leggenda di Rama, tra storia e immaginario

Attraverso racconti e leggende sulle tracce dei primi abitanti della Valsusa, quando la Storia si intreccia col mito

La leggenda di Rama, tra storia e immaginario

 "Rama, cosa sai di Rama? Qualcuno l'ha trovata?".

Quando si parla di Valsusa, la curiosità è tutta concentrata su questo nome, un nome da mantra indiano, Rama custode di scienza e di ricchezza.

Portici alti come cattedrali e lunghi come l’intera vallata, misteriosi abitanti perfetti come esseri ultraterreni, depositari di una civiltà straordinaria, dolenti profughi da una terra scomparsa, artefici di una mitica città a sua volta inghiottita dalle nebbie del tempo .

Resta una traccia di pietre, come i sassolini di Pollicino, e che conduce ai 3.538 metri del Rocciamelone. Il Roc Maòl, nome suggestivo appartenente più alla fantasia che alla Storia, il Romuleus Arx, roccaforte del Re malato che in un tempo indecifrato affidò le sue immense ricchezze in custodia al Principe degli Inferi .

Sogno, realtà, irresistibile tentazione di sfidare la maledizione, affrontare tempeste e boati di frane, e cambiare tutto in un attimo, diventare padroni di tutto l’oro del Re.

Perfino Arduino il Glabro, primo Marchese di Torino, non seppe resistere al richiamo del favoloso tesoro, e partì alla volta della cima, scortato da una processione di chierici con la Croce; anziché scacciare il demoniaco custode, dovette rassegnarsi ad una precipitosa ritirata fra grandine e saette, e lasciare il prezioso bottino tra le rime dei cantastorie.

La nostra enigmatica montagna continua a celare i suoi segreti, e rivelando la sua sacralità non fa che alimentarne di nuovi: lungo le sue pendici, nascosti in mezzo a druidiche boscaglie, sporgono alcuni massi incisi con meandri e spirali, dipinti con figure stilizzate, forse guerrieri, forse qualcosa che Rama ricordava, e voleva lasciare in eredità a chi l’avrebbe riconosciuto.

Segni e disegni scolpiti una coppella per volta, un colpo di scalpello dopo l’altro, quando già uno scalpello in ferro era “il” segno, e il fonditore uno sciamano bruciato dalle scintille e dal calore abbagliante del crogiolo.

Le pietre diventano pagine e mappe e altari, da un capo all’altro della Valle: la Pera Maria di Gravere, la Pera Crevolà di Mattie, la Pera dle Faje di Vaie, il sito inquietante del Maomét di Borgone.

Tracce di muri che delimitavano ambienti, forse destinati a riti sacri, alla ricerca di una coscienza superiore. In epoca romana, qualcuno incise sulla parete rocciosa una figurina di divinità accompagnata da un cane… Vertumno? Silvano? In ogni caso, personificazione delle forze naturali che nei boschi si percepiscono a fior di pelle, che si riconoscono come ancestrali. Queste forze erano già venerate da tempo immemorabile prima che la Croce si alzasse sugli altari e divenisse il Segno in cui vincere, per questo i semplici contadini dei nostri paesi le associarono al Demonio, alle Masche sue adoratrici, o a quanto di più pagano ricordassero di aver visto, quel Maometto temuto perché invocato dai Saraceni!

Un passo dopo l'altro, cerchiamo indizi, schegge di realtà incastonate nelle storie raccontate intorno al fuoco, voci distorte dal sibilo del vento… Le senti?

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Grazia Dosio

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