Ci sono ristoranti che, collocati del tutto al di fuori sia delle rotte del fine dining sia di quelle delle ormai sempre più diffuse “osterie contemporanee”, rischiano oggi di essere liquidati da una critica enogastronomica diventata un po’ modaiola e radical chic come “locali da grandi numeri”: quelli cioè che, sfuggendo all’ormai invalsa usanza dei 35 coperti, fanno semplicemente ristorazione come si faceva una volta. Con chef che fanno ancora i cuochi, camerieri che cercano di venire incontro alle esigenze del cliente, piatti che hanno nomi comprensibili a tutti senza dover per forza ricorrere a un dizionario. Ed è proprio in uno di questi ristoranti che, sotto una curatissima topia dalla quale pendevano promettenti grappoli verdi di uva fragola, che ho mangiato due sere fa. Con la sorpresa di scoprire un locale – Da Dino – nel quale si respira ancora, sia pure in una prospettiva di innovazione, l’aria autentica della ristorazione con cui è cresciuta l’Italia della seconda metà del secolo scorso.
Tra presente e memoria: un’identità che resiste
La storia di questo locale, nata nel 1968 e impostasi alle origini come una delle prime cucine di pesce del torinese, meriterebbe – e al riguardo cercheremo di trovare uno spazio adatto in futuro – di essere raccontata più dettagliatamente. Quel che ora però mi preme, da fedele cronista, è farvi parte della serata che qui ho trascorso e dei piatti che ho assaggiato. Devo ammettere che il primo piatto arrivato, un Misto mare segnalato sia nel menu cartaceo che in quello digitale come una “novità”, qualche perplessità me l’ha lasciata: la capasanta gratinata e l’insalatina di mare a tutta prima mi sono sembrate oneste, ma non di più. La musica però avrebbe cominciato a cambiare, in quello stesso piatto, con la parmigiana di spada, nella quale la forza delicata del pesce riusciva a dire finalmente la sua. E lungo questa stessa strada avrebbero continuato a camminare i primi: un equilibrato Spaghetto Mancini alle vongole veraci e un Pacchero 72 - con totano, spada, pesto ligure e pinoli – davvero capace di esprimere appieno l’identità della cucina di Da Dino. Le cui ascendenze calabresi – siamo alla terza generazione – è attestata anche dal peperoncino portato in tavola fresco direttamente “in vaso”. Sulla stessa linea, decisamente convincente, anche il Misto imperiale alla brace capace di testimoniare sia della freschezza del pesce, sia della capacità della cucina di gestirlo al meglio. Un tradizionale Tiramisù, buono anche se a mio gusto fin troppo dolce, conclude una serata che mi ha piacevolmente proiettato in un mondo inatteso.
Se l’attenzione al cliente va di pari passo con l’efficienza
Fin dal momento della prenotazione sono rimasto favorevolmente stupito: finalmente una voce umana che ti risponde con tono gentile senza costringerti a richiamare o ad essere richiamato. Senza che questo significhi ignorare l’innovazione, visto che appena chiusa la telefonata, ecco arrivare su WhatsApp un messaggio di conferma con data e ora della cena fissata. E lo stesso vale per il servizio: pur gestito con personale dotato di moderni auricolari, mantiene la familiarità dei locali di una volta: disponibile, rilassata, attenta a venirti incontro. Carta dei vini, questa volta solo online, forse da tenere più aggiornata e controllare meglio (chiedendo una bottiglia di Pinot Grigio inserita tra le mezze bottiglie, scopro che il formato della bottiglia è quello da 75 cl.). Buona cucina di mare (quella di terra ve la racconterò un’altra volta) e ambiente piacevole, pensato per passare una bella serata all’aperto (ventilatori giusti, zanzariere elettriche…) con musica di sottofondo ben calibrata e, due sere alla settimana, invece musica dal vivo. Proprio come nella prima metà del Novecento.