Lo chiamavano “il sergente di ferro”, perché si diceva conducesse le sue formazioni con pugno duro, quasi dittatoriale, ma i giocatori che hanno avuto la fortuna di averlo come allenatore non confermano questa versione dei fatti. In effetti, Luigi Radice detto Gigi, era un innovatore.
Primo in Italia aveva recepito la filosofia olandese di fare calcio, con pressing alto, portato già dalle punte. Tanta fisicità, quindi, dovuta agli schemi dispendiosi ma efficaci e quindi allenamenti duri, mirati ad avere uomini pronti sul campo per novanta minuti. Forse da qui nasce il soprannome. Di lui mi ricordo l'ultima giornata di campionato, anno di grazia 1975/76. Era il sedici maggio e dopo ventisette anni, il tricolore tornava sulle maglie granata. Tutti, ma proprio tutti, in quel catino straboccante di folla erano felici. Tutti meno lui. Il suo Toro aveva “solo” pareggiato la partita col Cesena e dopo quattordici successi casalinghi consecutivi, questo per lui era un'onta insopportabile. Il povero Frajese gli correva dietro per il campo, microfono in mano, a cercare di cogliere le sue prime parole di gioia dopo la vittoria dello scudetto, ma invano. Alla sua affermazione gioiosa, “siete campioni d'Italia” il mister aveva ribattuto con un raggelante “ma chi se ne frega, abbiamo pareggiato” che aveva lasciato di stucco il povero cronista Rai. Questa era l'intensità e la meticolosità professionale dell'uomo, questo era Gigi Radice, il condottiero che per primo ed unico, dopo Superga, si sia laureato campione d'Italia, allenando il Torino. L'anno successivo decisero che il Toro aveva pisciato fuori dal vaso già una volta, con quel sorpasso folgorante in tre partite all’attonita Vecchia Signora, e non era il caso di lasciargli fare uno storico quanto meritato bis. Con cinquanta punti, quota che gli avrebbe permesso di vincere uno qualsiasi dei campionati a sedici squadre del dopoguerra, arrivò secondo, indovinate dietro a chi. Si disse che se il Toro avesse fatto sessanta punti, ovvero l’en plein, loro ne avrebbero miracolosamente fatti sessantuno. Il delicato equilibrio si ruppe e Gigi lasciò il Toro nel 1980, per tornarci una seconda volta quattro anni dopo. Un'altra entusiasmante avventura alla guida di un gran bel Toro, con campioni come Junior e Dossena, culminata in un secondo posto alle spalle del sorprendente Verona di Bagnoli, Elkjaer e Briegel. Poi le incomprensioni con una parte dello spogliatoio e il secondo,dfinitivo, addio.
Ma nel cuore dei tifosi è rimasto il ricordo di lui, portato in trionfo attorno al campo inondato di sole e di gioia in quel magico sedici maggio, quando anche lassù si festeggiò a lungo. Questo triste duemiladiciotto, in pochi mesi, ci ha portato via i tre simboli della più intensa essenza granata in panchina. In primavera Mondonico, l'uomo della sedia di Amsterdam, levata al cielo contro l'ingiustizia e la sfortuna. Quello che teorizzava l’orgoglio di essere indiani in un mondo di cowboys, di vivere a testa alta, senza esitazioni e senza rimpianti, una diversità sportiva che era contemporaneamente un fardello ed un onore indossare. In estate Giagnoni, l'uomo del colbacco, quello che aveva risvegliato l'orgoglio di essere granata in una città in cui l'omologazione ed il grigiore quotidiano di essere il dormitorio della fabbrica della Famiglia Regnante, imperava sovrano incontrastato. Il suo pugno a Causio nel derby, squarciò quel grigio, figlio guarda caso dell’unione tra il bianco e il nero, dando al granata una nuova vigorosa dignità che da dopo Superga era mancata. In autunno, infine, anche l'uomo dello scudetto, ci ha lasciato. L'allenatore che ha avuto il coraggio di cambiare, di innovare, di vincere. Quello che con Pianelli ha composto un tandem di rara efficacia in casa granata.
“Radice e undici grandi contro tutti”, recitava lo striscione che campeggiava sopra la Maratona, e il ragazzino quattordicenne, quale ero io in quel glorioso ed ormai lontano 1976, lo aveva preso alla lettera, sfida lanciata all’umanità intera. Anno veramente orribile, questo 2018, se pensiamo che anche Sauro Tomà, l'ultimo degli Immortali, quello miracolosamente scampato al fato e Carla Maroso, la più vigorosa e presente testimone di quell’indimenticabile compagine, sono lievemente volati via. Ci restano una ventina di giorni col fiato in gola e le dita incrociate per chiudere l'anno, con la speranza che sia finita qui, ma con la contemporanea certezza che comunque, al di là della presenza fisica di queste persone splendide che ci hanno lasciato, la loro figura, la loro storia, resteranno per sempre un esempio da seguire, una luce nelle tenebre che indica il cammino, infonde la speranza e riscalda il nostro vecchio e tribolato cuore granata.