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In Breve

| 08 agosto 2020, 06:00

Elena Matilde: la sposa infelice di via delle Orfane. Uno dei fantasmi più conosciuti della città di Torino è quello che si aggira per i corridoi di Palazzo Barolo

Quando quella mattina mi sposai in duomo, mai avrei pensato che la mia vita sarebbe finita così....

Elena Matilde: la sposa infelice di via delle Orfane. Uno dei fantasmi più conosciuti della città di Torino è quello che si aggira per i corridoi di Palazzo Barolo

Quando quella mattina mi sposai in duomo, mai avrei pensato che la mia vita sarebbe finita così.

Mi ero messa il vestito più elegante che avevo, non era nuovo ma l'avevo messo una sola volta. "Perché fare inutili sprechi?" aveva detto papà e io gli avevo dato retta, ovviamente. Poi la mamma mi aveva appuntato una sua spilla preziosa sui capelli. "Questa te la regalo" mi aveva sussurrato con tenerezza.

 

A me non importava nulla dell'abito, usato o meno, l'importante era indossarlo per sposare il mio amato Gerolamo. Cugino e promesso sposo praticamente dalla culla, mi ritrovai di fronte a lui e al vescovo con il cuore che mi batteva all'impazzata. Il mio amore era così elegante, e così dolce con quel suo sorriso complice da ragazzino.

 

E, altrettanto dolci furono i nostri giorni insieme, prima che tutto precipitasse. Prima che le voci nel palazzo si facessero più forti, gli sguardi per strada più perfidi e l'aria in famiglia più tesa.

 

Io non ero una sciocca ma un'innocente, intuivo che ci fosse qualcosa che non andava ma mai avrei pensato che potesse mandare tutto in pezzi, il mio matrimonio, la mia vita.

Eppure così accadde.

 

Nonostante la vergogna che ciò mi procura, è necessario che vi spieghi meglio la situazione. La mia famiglia d'origine non navigava propriamente in buone acque. Mio padre aveva il vizio del gioco, lo sapevano tutti, persino io. E per colpa di questo vizio aveva fatto una serie di debiti, e per pagare questi ne aveva fatti altri, e per questi altri, altri ancora fino ad andare a corrodere parte del nostro patrimonio. Quella parte che, me sventurata, sarebbe dovuta servire per la mia dote.

 

Io ancora lo ignoravo ma già all'epoca del giorno delle mie nozze felici, nubi minacciose si stagliavano all'orizzonte. Solo un quarto della mia dote era stata corrisposta alla famiglia di mio marito e, solo lo stretto legame di parentela, aveva evitato lo scandalo e permesso le nozze. "Entro sei mesi avrete tutto il dovuto" aveva promesso mio padre mentre il vescovo ci benediceva.

 

Sei mesi non furono sufficienti ma, quando rimasi incinta, il tempo parve tacitamente allungarsi. Mio padre, però, a quanto pare non fu in grado di sfruttare la proroga garantita dall'arrivo del piccolo Giovanni e poi neanche da quello della dolce Clara. La mia piccola, piccolissima Clara.

 

Il tempo passava, la famiglia si allargava ma gran parte della mia dote ancora mancava.

 

Io, nella mia ingenuità, credevo che si sarebbe trovata la soluzione ma soluzione non c'era, la questione era spinosa, la vergogna tanta.

 

"Un contratto non rispettato va sciolto" mi disse quel giorno maledetto mio zio, il padre di Gerolamo, in piedi in mezzo all’atrio. Mentre mio marito non riusciva a incontrare il mio sguardo e si concentrava pervicacemente sull'arazzo alle mie spalle. Io avevo dato alla luce Clara un mese prima e, quella mattina stessa, avevamo trovato una balia.

"Cosa intendete?" chiesi mentre le mani cominciavano a tremarmi.

"Le tue cose, quelle con cui sei arrivata, sono già nella carrozza, ti prego di seguirmi”

"Ma Gerolamo cosa significa?" chiesi cercando di aggirare mio suocero.

"Gerolamo non può niente. Non fare scenate, la tua famiglia si è già comportata in maniera sufficientemente disonorevole" disse lo zio afferrandomi per un braccio.

 

Ricordo poco e confusamente ciò che avvenne dopo. "I bambini" chiesi, "cosa sarà dei bambini?" ma non mi fu risposto. Venni trascinata di peso nella carrozza. Il viaggio per le strade di Torino fu breve. Ad attendermi, davanti al palazzo che mi aveva vista bambina, trovai mio padre.

"Vieni dentro" mi strattonò mentre esitavo davanti alla porta, "vieni dentro, non facciamo scandali"

 

Mi portarono nelle mie vecchie stanze e, per la paura che provassi a scappare, a raggiungere mio marito e i miei figli, mi chiusero dentro.

 

Mio padre aveva dissipato metà del patrimonio di famiglia. La mia cospicua dote non era mai stata corrisposta interamente. Mio zio aveva considerato l'offesa inaccettabile, e il desiderio di sciogliere i legami con una famiglia in declino aveva fatto il resto. Gerolamo non era stato in grado di opporsi, così giovane e gentile il mio Gerolamo. Io non avevo potuto oppormi. Sposa e madre poco più che ragazzina. Il contratto era stato sciolto. Il matrimonio annullato, nonostante le due creature già venute al mondo.

 

Orribile, nevvero?

 

Rimasi chiusa nelle mie stanze. Le prime ore le trascorsi ad osservare le mura come inebetita, poi piansi, infine gridai. Gridai fino a quando non mi mancò la voce. Mi strappai i capelli, cercai una via d’uscita a mani nude, grattando mura e porta con le unghie. Dicono che abbia perso il senno. Forse o forse semplicemente mi si spezzò il cuore. Chiusa in quelle stanze, lontana dal mio amore, lontana dai miei bambini. Un legame sciolto, una famiglia sciolta, annullata. Ma era la mia famiglia, erano i miei legami, negati. I bambini chiesero di me? Piansero? Cosa fu detto loro, forse che li avevo abbandonati volontariamente? E Gerolamo, come poté permettere tutto ciò, perché non li fermò, perché non corse a prendermi?

 

Non ricordo per quanti giorni andai avanti, so solo che mi trovarono una mattina, sul selciato sotto la mia finestra. Mia madre urlò, mio padre pietrificato riuscì solo a mormorare “che vergogna”.

Mi seppellirono di nascosto, fuori dalle mura, il luogo dei suicidi.

 

Ma io non me ne sono mica andata, no no. Io sono rimasta lì e ancora lì potete trovarmi ogni notte di luna piena. In trappola tra questi corridoi, la mia anima si lamenta, tormentando se stessa e chi l'ha imprigionata. Mi muovo tra le stanze cercando i miei bambini e una via d’uscita perché la colpa non fu mia e neanche la vergogna.

 

Secondo la leggenda, durante le notti di luna piena, tra le stanze di Palazzo Barolo fluttuerebbe un fantasma. Sarebbe quello  della nobile Elena Matilde.

La donna era stata data in sposa al cugino Gerolamo ma il padre di lei non era stato in grado di pagare la dote per intero. Per questo la giovane sposa, un paio d’anni dopo le nozze, era stata costretta a tornare dalla sua famiglia di origine, nonostante il matrimonio felice e i figli già nati. Chiusa nelle sue stanze era impazzita e, per la disperazione, aveva finito col suicidarsi buttandosi dalla finestra.

Il suo spettro, dunque, continuerebbe a vagare tra quegli stessi luoghi probabilmente in cerca dei suoi amati.

Rossana Rotolo

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