Brave a fare, ma meno brave a "vendersi", partecipi e integrate nel sistema innovativo della città, ma ancora poche numericamente e con un DNA industriale che fatica a distinguere il territorio torinese. Sono alcune delle caratteristiche che emergono dall'indagine sulle start up torinesi effettuata dal Club degli investitori con Escp, Camera di Commercio e SEI, School of Entreprenership.
Un'indagine che mostra vitalità, ma anche limiti e un gap ancora da colmare all'ombra della Mole.
Secondo quanto racconta la ricerca, a differenza degli stereotipi gli startupper torinesi non sono giovani sognatori chiusi nel loro garage: in un caso su due sono imprenditori di esperienza, ex manager o amministratori e, nel 72% dei casi, hanno precedenti esperienze imprenditoriali. L'età media è di 40 anni, quando avviano la propria idea di impresa.
Torino, però, appare in affanno rispetto a Milano, Roma e altre città. Qui una startup appare ogni 5775 abitanti, mentre nel capoluogo lombardo la media è di una ogni 1455 e a Roma ogni 3684. I ricavi, poi, sono del 30% inferiori alla media nazionale (132mila euro contro oltre 162mila).
"Le start up torinesi vogliono più investitori - sottolinea Giancarlo Rocchietti, presidente del Club degli investitori - infatti nel primo semestre chi ha ottenuto capitali è un'eccezione straordinaria. Gli startupper torinesi devono imparare a dialogare con gli investitori".
Intanto sul territorio qualcosa prova a muoversi, facendo squadra. "Stiamo preparando un portale con Unicredit e proprio con Sei - svela Guido Bolatto, segretario della Camera di Commercio di Torino - per creare maggiori collegamenti tra il nostro territorio e il mondo delle start up".
"Sia chi finanzia le start up, sia chi fa coworking e ancora altri attori - aggiunge Andrea Griva, presidente di SEI -: sono loro gli attori che vogliamo mettere in collegamento con questo nuovo progetto che presto verrà alla luce. Al momento, Torino non è sulla mappa internazionale dell'innovazione. Solo lavorando insieme si può cambiare questa condizione".
"Se si lavora bene - aggiunge - sarà possibile fare emergere qualche buona start up e su cui investire anche pesantemente. L'unicorno è un fatto statistico: servono grandi numeri perché emerga un elemento unico nel suo genere".
"Penso che sia anche responsabilità delle università e business school incentivare in modo proattivo l’attitudine imprenditoriale dei giovani - conclude Alisa Sydow, docente di Escp business school -. Per favorire tale mentalità occorre connettere gli studenti con l’ecosistema locale dell’innovazione e dargli la possibilità di fare le prime esperienze. Così le nuove generazioni saranno in grado di tradurre le proprie idee in opportunità di business. Opportunità di business che creano valore a lungo termine, con un impatto non solo economico ma anche ambientale e sociale.