Alcuni concetti, volenti o nolenti, accompagnano fedelmente le nostre vite. Simili ad ombre, riflettono i contorni dell’inconscio, la sagoma dei propri demoni, la silhouette della fantasia.
Il loro effetto sulla psiche, sia esso positivo o avverso, dipende in larga parte dalla prospettiva da cui li osserviamo: nello specifico, cosa ne valutiamo o ne scartiamo, dove ci troviamo, quando vi attingiamo, quali sfumature attraggono o spaventano di più…
Concentriamoci, ad esempio, sul termine “dis-torsione che vi confido in anteprima essere il tema portante dell’articolo. Come nella stragrande maggioranza dei casi, deriva dal latino (tardo): distorsio –onis.
Il suo significato, immaginando per un attimo di amputare l’invadente prefisso dis, torna all’essenza, al nucleo semantico primario – assolutamente non negativo: infatti, con torsione, si indica semplicemente l’azione di torcere e far ruotare un oggetto come pure la capacità personale di torcersi o ruotarsi e, infine, l’effetto stesso che ne consegue, sia fisico sia visivo.
Insomma, una parola che appartiene al nostro bagaglio sin dall’infanzia e che ripeschiamo dalla memoria piuttosto spesso, difficilmente però caricata di valenza sfavorevole: basti pensare all’artista, che torce il materiale a sua disposizione per trasformarlo nell’idea ispiratrice; al vento, che torce e piega i rami e le foglie a suo piacimento. Ancora, le sagge mani di una madre intenta a preparare gustose ricette, capaci di ruotare l’impasto con maestria e creare così dolci dalle forme estrose.
Eppure, è sufficiente un prefisso per cambiare tutto. Dis-torsione, infatti, assume un significato diametralmente opposto benché parallelo. Come ben spiegato dall’enciclopedia Treccani - tralasciando le applicazioni del termine in ambito tecnico-scientifico (elettroacustica, elettronica, ottica, meccanica, telecomunicazioni e medicina) – si tratta di uno spostamento o deformazione che provoca l’alterazione della forma e/o dell’atteggiamento naturale. Uno stravolgimento della situazione iniziale.
Basta un prefisso a rovesciare l’accezione buona e positiva del termine, caricandolo di mille sfumature “difettose”. Ed ecco palesarsi subito nella mente immagini di malformazioni, disfunzioni, fraintendimenti, calunnie (possono essere distorti anche fatti e persone: non dimentichiamolo!), malfunzionamenti, anomalie e simili.
“Il peso del dis-”, potremmo ribattezzarlo ironicamente. Incredibilmente, invece, balza all’occhio (almeno al mio) una seconda interpretazione, simbolica, che traduce in comportamento umano e quindi soggettivo un fenomeno naturale e quindi oggettivo. Sì, perché il pesante giogo semantico che il nostro simpatico prefisso lascia in eredità a torsione, è lo stesso che uno sbagliato rapporto con il proprio io e la società lasciano alle nostre esistenze.
La distorsione, infatti, è il risultato di tutta un’infinita serie di pensieri fissi velenosi e malati, irrealisticamente interpretati, che s’inculcano in fondo all’anima e ne occupano pian piano l’intero spazio. Come parassiti. Semi di dolore e fobia, piante infestanti pronte a crescere e soffocare ogni traccia di flora “buona”, ogni traccia di razionalità. Assorbendo la vita stessa, monopolizzandone le fonti di energia.
Sfruttando l’istinto naturale dell’uomo al bello e il suo desiderio di accettazione, queste mortali radici si diramano ovunque, senza tralasciare nessuno dei principali ambiti moderni: estetica, fisicità, salute mentale, famiglia e persino società, sommando perciò all’equazione il proprio background – il fuori e il dentro di noi, insomma.
Inutile negare che la distorsione sia figlia di due genitori incapaci – estremizzazione e manipolazione. Incapaci di empatia e solidarietà, incapaci di verità. Proprio così: a partire dall’ aspetto esteriore, prima elementare manifestazione dell’io, i modelli e i valori di riferimento sono quasi sempre sfalsati, farlocchi, fasulli, storti, studiati a tavolino per essere inarrivabili quanto appetibili, maledettamente appetibili. Quasi come se la strega di Biancaneve se ne andasse in giro indisturbata stalkerando chiunque, sempre pronta a offrire barattoli di Nutella, pizzette e pasticcini – avvelenati, ovviamente: per quanto tempo riusciremmo a rifiutarli, pur sapendo della loro tossicità? Fino a quando la razionalità vincerebbe la battaglia contro la passività? Perché di questo si tratta: delegare ad altri le decisioni, accettare passivamente che sia il mondo a decidere chi e come dobbiamo essere, cosa mangiare o credere, come vestirci, se fare o non fare. Un momento di particolare “fame” (dato dall’insoddisfazione, persino dalla noia) potrebbe risultarci fatale.
Fa sorridere immaginare la scena, non è vero? Peccato sia un sorriso amaro.
Proviamo adesso, insieme, a spezzettare questi valori di riferimento poco prima citati.
Il ritrovato senso estetico, per cominciare; lineamenti scolpiti, calcolati come operazioni algebriche, potenziati, gonfiati, levigati, addolciti. File e file di volti identici, marchiati e privati dell’unicità di un carattere, che si susseguono sui nostri cellulari e dispositivi al pari di prodotti confezionati appena “sfornati” da una catena di montaggio.
Fisici scultorei, trattati come templi, ai quali si dedicano attenzioni smisurate, curati nel minimo dettaglio, sino all’ossessione. Sino ad ammalarsi. Non servono grossi sforzi per accorgersi di quanto i disturbi alimentari - massimo esempio di distorsione - siano ormai una piaga mondiale, soprattutto in occidente. E se è vero che le cause scatenanti possono spesso essere solitudine, depressione o traumi, è altrettanto vero ciò che le statistiche vanno confermando: sempre più casi (si calcola il 70% circa) vedono la luce a motivo dei moderni standard estetici e della voglia irrefrenabile e autolesionista di raggiungerli, a costo della salute. Letteralmente (rapporti ISTISAN, Istituto Superiore di Sanità – Roma).
Passando oltre, giungiamo al macroargomento delle aspettative, probabilmente i principali catalizzatori del disagio umano: aspettative da parte dei familiari, degli amici e della società. La vita personale sotto costante guidizio (relazioni amorose, fede politica e religiosa, la scelta di diventare o meno genitori, condividere passioni e opinioni per paura di apparire degli outsider), carriere lavorative obbligate senza le quali l'universo sembra suggerirci neanche troppo velatamente che valiamo zero. E correre, correre, correre, su di un infinito tapis roulant che promette troppo e si prende tutto, iniziando dal nostro tempo e finendo ai sogni.
Infine l’informazione, forse principale vittima di questo male: un continuum di notizie modificate ad hoc, calibrate magistralmente e condite a puntino per soddisfare la naturale e sana sete di sapere di chi crede ancora che un canale valga l'altro.
Ed ecco nascere le distorsioni, sintomo del “disturbo di personalità” di cui tutti un po’ soffriamo, di un ago impazzito che segna sempre lo stesso nord benché a spostarsi siano le inclinazioni naturali, il carattere, i tempi, le capacità e i limiti oggettivi – la realtà, in due parole. E quei pensieri fissi che giorno dopo giorno trangugiano la nostra voce interiore - etica e morale - fino a sostituirla. Come un demonio s'impossessa della vittima prescelta.
Credo sia superfluo precisare che qui non ci si sta di certo riferendo al giusto desiderio di migliorarsi e crescere né alle scelte di vita portate avanti con determinazione e coraggio – cosa saremmo senza la capacità di porci delle mete?
Tuttavia, ultimamente, mi sfiora un dubbio. Mi attanaglia, in verità: quanto di ciò che sono e sarò dentro e fuori dipende da me? Quanto è stato condizionato da idee, pensieri e modelli (sì, ancora loro) esterni? Posso in coscienza dire che la percentuale sia minore del 50%?
E così ho pensato a un nuovo stile di vita, cari amici e #poetrylovers, per il cui sostegno mi piacerebbe lanciare oggi un nuovo hashtag: #sottoil50. Già, una specie di campagna di sensibilizzazione, la diffusione di un messaggio volto a difenderci tutti: se per qualche ragione pensassimo che quella percentuale stia crescendo, se “sentissimo troppo mondo” e poco io, corriamo ai ripari. Prima che sia tardi, prima che la distorsione diventi l’unico nostro riflesso allo specchio, prima di dover raddrizzare ciò che non è mai stato storto!
Non permettiamo a nessuno di dirci che siamo difettosi o sbagliati. Che non abbiamo capito da che parte stare. Che dobbiamo cambiare. L’uomo non diventa mai obsoleto, non è un’app da aggiornare né una macchina da costruire pezzo per pezzo. Non in quel senso. Non sulla base di quei dannati modelli.
Okay, ognuno di noi ha qualche fissa; ve lo concedo. Ed è impossibile non venire influenzati per nulla dall’ambiente circostante. Tuttavia, riconosciamoci sempre il tempo necessario ad ascoltarci e capirci (è un dovere quanto un diritto!), distanziamoci se servisse da qualsiasi momento/fonte/fatto/discorso/standard/persona non ci rispetti o, peggio, voglia scavalcarci con la chiara intenzione di manipolare il nostro punto di vista, sfruttando un "vuoto di pensiero" o più semplicemente l'ingenuità: non siamo noi a doverci plasmare sulla vita. Piuttosto il contrario! A immagine e somiglianza soltanto di sé.
Sì alla coscienza, dunque, sì al miglioramento e alla giusta prospettiva delle cose; mettersi in discussione è salutare. Ma NO agli schemi fissi, ai pensieri fissi, agli sguardi fissi e a quest’idiozia fissa che ci ritrae tutti come oggetti e trame già scritte. NO ai prefissi! E a quell’ironico “peso del dis-” che non deve infettarci. Non più del 50%, perlomeno ;-)
Difendiamo il nostro diritto a esistere per come siamo. Difendiamo corpo e mente.
#sottoil50
Finalmente, anche oggi, siamo giunti al vero protagonista della rubrica, lo spazio poetico.
Sono felicissima ed emozionata di presentarvi la potente e sagace penna di una carissima amica, coetanea e poetessa: Alessandra Manara. A proposito, siccome della sua anima artistico-umana non se ne ha mai abbastanza, vi consiglio di ordinare quanto prima la sua silloge d'esordio e farne scorta! "Senzavoce", edito da Milena Libri.
Di seguito, il suo dono in versi.
ANFIBI
Dove alita
Questa stramba
Poligamia
Non c'è ombra
Di albore
Nè filamento
In madreperla
Che possa
Condurre
Alla risonanza,
Alla gravidanza
Delle onde
Il respiro s'arriccia
Teso sulle corde
Dei nervi terricoli
E chi s'addentra
Da straniero
Nella distorsione,
Per siffatte camere
Ardenti
Deve fingere
Festa tra le carcasse
Irrigidite dal tempo
Dal freddo,
Ma sorridenti
Questi versi, in particolare:
"Deve fingere / Festa tra le carcasse"
Chi siamo noi? Quelli vivi o quelli già morti?
Pensateci su!
Alla prossima