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io_viaggio_leggero | 14 giugno 2025, 07:00

Isole Surin e Khao Sok, la Thailandia che respira ancora: dove il "vuoto" diventa fertile

In questa rubrica troverete interviste a viaggiatori e reportage vissuti in prima persona. Luoghi da scoprire, avventure emozionanti e storie di vita. Se hai un’esperienza da raccontare… scrivi a: ioviaggioleggero@gmail.com

Tra reef incontaminati e foreste pluviali, un viaggio essenziale dove il tempo si misura in correnti marine e passi nella giungla. Un’avventura fuori dalle rotte del turismo di massa, almeno per ora.

C’è una Thailandia che sfugge ai radar. Non scintilla nei resort di Phuket né si lascia imbrigliare in itinerari preconfezionati. Va cercata ai margini della mappa, dove la natura detta ancora i ritmi e il viaggio diventa scoperta. L’ho incontrata tra le isole Surin e la giungla d’acqua di Khao Sok: due luoghi che invitano — dolcemente — a svuotarsi delle abitudini. La barca parte da Kuraburi all’alba. Il motore vibra nella schiena, l’orizzonte si scioglie in una linea liquida. A bordo siamo pochi, zaini compressi, sguardi tra sonno e attesa. Sul molo ci hanno pesati — letteralmente — per calcolare il carico. L’accesso alle isole è contingentato: un ecosistema fragile che si protegge così dal peso eccessivo dell’umanità. Dopo un’ora e mezza di navigazione, le Surin emergono dal mare delle Andamane come un arcipelago dimenticato. Cinque isole protette da un parco nazionale marino, casa di tartarughe e coralli millenari. Il mare è trasparente fino all’osso, la sabbia chiarissima si arrende alla natura selvaggia che scende fino a riva.

Non ci sono hotel. Non ci sono bar. Chi arriva può scegliere tra pochi bungalow semplici, essenziali, oppure sistemarsi in un campo tendato predisposto direttamente sulla spiaggia, con tende già montate a pochi metri dal mare. Non c’è acqua corrente: per lavarsi e per cucinare si utilizzano vasche di raccolta dell’acqua piovana, gestite con molta parsimonia. La vita qui è spartana per scelta. È vietato introdurre e consumare alcolici: una regola che protegge l’equilibrio di queste isole e ne rafforza il carattere controcorrente.

Ma la vera vita, alle Surin, scorre sull’acqua. Ogni mattina, piccole longtail boat — barche tradizionali dal lungo timone — partono dal campo con piccoli gruppi di viaggiatori. Il ritmo segue i reef: ci si sposta da un sito all’altro, dal blu profondo di Richelieu Rock alle barriere più protette intorno a Koh Surin Nua e Koh Surin Tai. A bordo il tempo si distende. Le giornate seguono una ritualità fatta di onde e silenzio. Si nuota da una lingua di corallo all’altra, ci si immerge in acque che sembrano lastre di vetro. Il mondo marino pulsa: banchi di pesci damigella, pesci pappagallo, murene rintanate nelle fessure della roccia. Qualcuno avvista uno squalo pinna nera. Le tartarughe, regine di questo mare, scivolano leggere. La barca diventa casa. Ci si sdraia all’ombra di un telo, si sorseggia acqua di cocco, si ascoltano i racconti delle guide locali, spesso ex pescatori oggi custodi del parco. Il legame con il mare è profondo e si legge nei gesti essenziali: lanciare l’ancora, leggere il cielo, seguire le maree. Al rientro, il tramonto segna la fine di un giorno governato dalle correnti. Seduto fuori dalla tenda, osservo il cielo popolarsi di stelle. Non le ricordavo così fitte. Il respiro del mare accompagna il sonno, mentre piccoli granchi si muovono sulla sabbia umida.

Dal mare alla giungla il viaggio è breve. Una strada sottile si insinua verso sud-est, tra piantagioni di gomma e villaggi sparsi. Khao Sok appare all’improvviso: un groviglio di verde che avvolge montagne carsiche e vallate dimenticate. È una delle foreste pluviali più antiche del pianeta, più antica perfino dell’Amazzonia. Nel cuore del parco si apre il lago artificiale di Cheow Lan, nato dalla diga Ratchaprapha negli anni Ottanta. Una ferita che il tempo ha ricucito: centinaia di pinnacoli calcarei emergono dall’acqua verde smeraldo, avvolti da una vegetazione che sembra scendere dal cielo. Si dorme in piccoli eco-lodge affacciati sulle sponde più quiete, semplici strutture in legno immerse nella foresta. Le amache appese in veranda raccontano l’atmosfera del luogo: un ritmo rallentato, un’estetica spartana, un’aria un po’ hippy che invita a staccare. Di notte il lago diventa una tavola scura. Le stelle si riflettono nell’acqua, il silenzio è profondo. All’alba, i richiami della foresta rompono la quiete. Khao Sok non si attraversa in fretta. Ci si muove piano, lungo sentieri sospesi tra radici e rocce umide, con il respiro che si adatta al battito della giungla. Ogni cosa qui ha un suo tempo: il fruscio del vento, il volo basso dei martin pescatori, le farfalle scure che si muovono in gruppo.

Ma è per un altro incontro che sono venuto fin qui. Gli elefanti della Thailandia, sfruttati per anni dal turismo, stanno lentamente recuperando spazi di libertà. Qui esistono piccoli santuari etici, nati grazie alle comunità locali. Non tutti lo sono davvero; la scelta richiede attenzione. Nel centro che visito, gli elefanti vivono senza catene né basti. Si muovono liberi in un tratto di foresta semi-protetta che segue il corso di un torrente. Non ci sono spettacoli, non si sale in groppa. Il momento con loro è un invito alla scoperta. All’inizio li osservo da lontano. I gesti sono misurati. Una giovane femmina ci guarda curiosa, con le grandi orecchie in movimento. Impariamo a preparare il loro cibo, a raccogliere foglie e frutta, a rispettarne le distanze. Il momento più intenso arriva, quando gli elefanti scelgono spontaneamente di immergersi. Non ci sono comandi né istruzioni. Si sta lì, in silenzio, accanto a loro. Il più anziano del gruppo — enormi zanne e pelle segnata — scivola piano nell’acqua. La sua lentezza è ipnotica. Intorno a me, nessuno scatta selfie. Gli sguardi sono bassi, rispettosi. Ho la sensazione che, in quel momento, anche noi stiamo imparando qualcosa: a pesare i gesti, a muoverci con discrezione in un mondo che non ci appartiene.

Le isole Surin e Khao Sok non offrono intrattenimento né comfort raffinati. Regalano qualcosa di più raro: uno spazio “vuoto” in cui riscoprire l’ascolto. Dove l’osservazione,  ritorna ad essere un grande accesso alla conoscenza. In un tempo che ci spinge a riempire ogni attimo, questi luoghi ci insegnano un’altra verità: anche il vuoto può essere fertile. Non è assenza, ma apertura. Uno spazio sottratto al rumore, all’urgenza. Un campo lasciato a riposo, che senza essere forzato, fiorisce. Così certi luoghi, liberi dallo sfruttamento, sanno regalare emozioni che altrove si perdono. E per incontrarli davvero — per essere presenti, non solo passare — a volte basta un gesto semplice: lasciare a casa qualche certezza, e alleggerirsi di troppe comodità.

Marco Di Masci

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