All’inaugurazione di un evento come Buonissima, che intende celebrare il cibo, sia nella sua declinazione regionale che nazionale ed internazionale, ci si aspetterebbe di sentire parlare di cibo: genuino, di qualità, persino eccelso. E dunque di cibo “buono”. Del resto che cosa c’è di meglio, per chi ha cucinato un piatto sentire esclamare da chi lo sta mangiando: “ma che buono!”? Se però la vostra reazione di fronte a un piatto ben riuscito è questa, chiedetevi se Buonissima faccia davvero per voi. Sia alla presentazione tenutasi al Lounge Bar di Piano 35, sia all’inaugurazione che ha invece avuto come scenario la Centrale Lavazza, di buono si è parlato assai poco. Fatevene una ragione, ma a Buonissima i piatti, prima che “buoni”, saranno innanzitutto “belli”. E così tanto belli da “dialogare” con l’arte figurativa, con la fotografia, con l’architettura della città. E chi più ne ha, più ne metta.
Il cibo oltre al cibo
A suscitare perplessità non è certo il fatto che il cibo rappresenti molto di più del suo immediato costituirsi come alimento. Sarebbe del tutto ingenuo non riconoscere l’evidenza dell’intrecciarsi strettamente in esso di socialità e rapporto con l’ambiente, di identità e religiosità, di passione e profitto. In questo senso il cibo, ben oltre la sua dimensione materiale, è venuto caricandosi nei secoli di una dimensione simbolica fortissima, che fa di esso una sorta di caleidoscopico specchio capace di riflettere nella forma del gusto la cultura, la storia e l’economia proprie di popoli, etnie e gruppi sociali assai eterogeni tra loro. Ogni gesto legato al nutrirsi — cucinare, conservare, condividere –assume così una valenza che va ben oltre la sua immediata funzione nutritiva.
Il gusto in secondo piano?
Questa più che legittima valorizzazione del cibo, mirata a evidenziare come sia davvero troppo riduttivo pensarlo nei termini di un semplice nutrimento, sta rischiando però col tempo di enfatizzare il cibo in una forma tale da fargli smarrire proprio la sua identità originaria e primaria: quella, appunto di costituirsi come alimento. Ed è inutile nascondersi che l’attenzione riservata al cibo dall’orizzonte consumistico nel quale viviamo abbia finito col trasformarlo in un vero e proprio feticcio: e dunque in un oggetto di desiderio, in un segno di appartenenza a un’élite, in una modalità di esibizione del proprio status. E c’è da chiedersi se, di questa riconduzione del cibo al “feticismo della merce” di cui parlava ormai quasi due secoli fa Karl Marx, non siano stati complici anche slogan come “buono, pulito e giusto”, coniato da Carlo Petrini forse con ben altro intento.
Se i veri artisti sono gli chef
Ed è proprio questa retorica feticistica del cibo, alimentata da media e social in una forma che ci vede ormai tutti coinvolti, ad essere protagonista di Buonissima nel suo esaltare il cibo, più che come “buono”, come “bello”: e dunque come “opera d’arte”, creata da “artisti” e frutto di un “genio” capace di trasformare piatti quotidiani in creazioni senza tempo. Così anche un uovo strapazzato è celebrato come un capolavoro, e una pur gustosa minestra assume il fascino di un’installazione. Ovviamente, ça va sans dire, a prezzi che non sono proprio quelli dei biglietti per visitare le mostre del Beato Angelico o di Kandinskij attualmente in corso a Firenze e a Parigi. Del resto, quelli sono solo pittori. Gli “artisti” veri di oggi sono gli chef di Buonissima. Non perdeteveli!