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Cultura e spettacoli | 10 settembre 2018, 11:52

La galleria d'arte Evvivanoé organizza la mostra personale di Marlo J. Montoya

Appuntamento dal 20 settembre al 20 ottobre in via Grassi 16

La galleria d'arte Evvivanoé organizza la mostra personale di Marlo J. Montoya

Il 20 settembre alle 18,30 da Evvivanoé in via Grassi 16 a Torino si inaugura la mostra [DE]HUMANIZED dell'artista colombiano Marlo J.Montoya.

Dopo diverse collaborazioni con la galleria d'arte di Cit Turin, la partecipazione alla Affordable Art Fair di Milano e a Paratissima 2017, per la prima volta a Torino la personale dell'artista con alcune delle sue più recenti opere.

Parlare di Marlo J. Montoya non può prescindere dal senso del suo gesto artistico. Al preciso controllo dell’operazione tecnica di post produzione, citando Marlo, “Ho imparato a controllare il caos. Calcolo tutto: grandezza del pennello, profondità, spessore. Non c’è nulla di involontario”, corrisponde una profonda violenza, quasi furiosa, nel risultato. All’arte come ars, in primo luogo quindi come abilità e tecnica, corrisponde un esito che sembra tutto emotivo. Il gesto di Marlo infatti è rabbioso e ricorda, nel suo accanirsi sul viso, un comportamento simil-psicotico. È l’atto d’odio per eccellenza: l’eliminazione degli occhi, la distruzione dei contorni del volto, fino a rendere irriconoscibile l’essere umano.
La disumanizzazione profonda a cui sono sottoposti i suoi “ritratti”, tuttavia, è aggressiva, ma non convulsa.  Ha imparato a controllare il caos, Marlo.
La violenza è diretta scientemente all’icona, indirizzata al volto di figure estremamente riconoscibili, simbolo per eccellenza di un “vintage pop” e di un sistema culturale, il nostro, che ha fatto della memorizzazione visiva, della bulimia d’immagine, il suo tratto distintivo. Ecco che compare Elizabeth Taylor con il suo vestito rosso, la scollatura a cuore, paillettata. Un colpo d’occhio basta, magari il nome non si ricorda immediatamente, ma la foto è ovunque, impossibile non averne almeno vaga memoria. Su Google è onnipresente.
L’homo videns di Sartori si incarna, dunque, proprio in una generazione zero, la nostra, che perde sempre più la necessità di comunicare verbalmente, ma che vive di stratificazione di immagini, dalle più svariate matrici, che sviluppa abnormemente non solo il senso della vista ma anche la memoria a esso collegata. La riconoscibilità dell’immagine e la possibilità di citarla con grande sicurezza sono basate sul fatto che all’enorme quantità di informazioni visive non corrisponde un’altrettanta varietà nell’ormai unica fonte di informazione, il web. Tantissime e sempre le stesse. Si crea così un substrato visivo e culturale che questa generazione zero capisce in un batter d’occhio.
A questo primo lato, distruttivo e centrifugo corrisponde in Montoya anche un aspetto centripeto e ricostruttivo. Dall’icona sfregiata nasce il tentativo di ricreare. Gli anonimi delle foto di gruppo scaricate dal web, persone qualunque, che hanno avuto sì una storia ma a cui Marlo è interessato molto poco, diventano l’incarnazione di una nuova umanità, simili a creature post-umane. L’occhiolino è proprio a quella generazione zero che, ingorda d’immagini, mastica cinema e telefilm, per la quale il ricordo della fantascienza cult è dietro l’angolo. Gli umanoidi dai colori pop di Montoya ridanno vita a foto che non dicono più nulla, foto di ignoti, in opposizioni alle icone del vintage pop. Nascono così mostriciattoli dalla scatola magica, il cubo blu di Lynch, della post produzione.
Anche tecnicamente il gesto di Montoya rispecchia questa duplicità. Al liquefarsi del colore del pixel del momento distruttivo (Marlo non aggiunge mai colore in più quando si tratta di sfregiare le Stars, ma scioglie virtualmente il colore già presente) segue, non temporalmente ma idealmente, l’applicazione, nel momento costruttivo, del colore quasi fluo, ex novo, su vecchie foto.
Il gesto di Marlo J. Montoya è lo stesso della pagina bianca di Apollinaire: una tabula rasa su cui riproporre una nuova umanità. Aliena, ovviamente.
Tanto il suo gesto appare aggressivo, tanto disumanizzante, tanto Montoya in realtà si prodiga per salvaguardare il lato umano dell’uomo. Eredita immagini che uno sconosciuto si è preso la briga di digitalizzare per salvare dalla scomparsa (ciò che non è nel web ormai non esiste) e le fa sue e le stampa. Le fa tornare carne.
Tutto questo in una versione ‘mobile’, portatile. Basta un programma e, oltre al pc, un tablet. Come l’en plain air nasce da un’invenzione tecnica, la creazione del colore a tubetti, così Montoya da forma all’opera in movimento, con una materia prima scaricabile del web e un’opera dopo da caricare sui social.
“Appena nasce un’opera la pubblico subito su Facebook” dice Marlo.

Ironico, proprio su FaceBook.

c.s.

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