Reinserire nella società chi ha subito uno sgombero e ora si ritrova senza identità giuridica, non significa solamente fornirlo di documenti e trovargli un lavoro. Il percorso umano che c’è dietro è ancora più lungo e complesso, fatto di ostacoli, rabbia, silenzi, ma anche amore, collaborazione e speranza.
Lo sa bene chi da mesi si prende cura degli ex inquilini del Moi, le palazzine olimpiche di Torino sgomberate prima lo scorso novembre e poi con la nuova tornata a inizio agosto. Uno dei centri inseriti nel progetto per l’emergenza abitativa e lavorativa dei rifugiati – che vede cooperare in sinergia prefettura, diocesi, Comune di Torino, Regione Piemonte e Compagnia di San Paolo – si trova in strada Traforo del Pino ed è gestito dalla cooperativa “Altrimodi”. Anche loro hanno partecipato alla due giorni organizzata da Officina Monviso al rifugio “Quintino Sella”, come conclusione delle attività di montagnaterapia portate avanti nel corso dell’anno. Un’esperienza di condivisione con altri soggetti svantaggiati provenienti da molteplici realtà del cuneese e del torinese, tra disabili di diverse età e minori con un passato difficile alle spalle.
“Abbiamo sempre voluto creare per i ragazzi occasioni per vivere momenti di comunità al di fuori della struttura”, spiega Pietro Schwarz, di Altrimodi. “La camminata in montagna rappresenta quindi la giusta metafora del percorso che ciascuno di loro compie ogni giorno. Faticoso, sicuramente, fatto di sacrifici e ostacoli. Ma poi c’è sempre una meta da raggiungere, un obiettivo che ripaga di tutti gli sforzi”.
A intraprendere col resto della comitiva il lungo cammino alle pendici del Monviso, sono stati quattro ragazzi forti e vigorosi: Umar, Ibrahim e Osuman, ghanesi, e Anthony, nigeriano. Già a maggio avevano avviato una collaborazione con la cooperativa “Il Raggio” del Punto Rete Tabasso, a Chieri, che si occupa di disabili fisici e intellettivi dai 18 ai 65 anni. Laboratori, volontariato, escursioni e persino la posa di un’opera d’arte di Pistoletto: queste le attività realizzate, in perfetta armonia, da due gruppi tanto diversi eppure vicinissimi nella condivisione delle proprie vite così singolari.
Da lì è poi nata la partecipazione alle iniziative di montagnaterapia dedicate alle varie fragilità. “Sono diventati una risorsa gli uni per gli altri”, spiega Elena Perizzolo, educatrice di Chieri. “L’aiuto reciproco è nato in modo del tutto spontaneo. Non era necessario comunicare nella stessa lingua, ma stare vicini, esserci. Noi non avevamo semplicemente bisogno di manovalanza per trasportare le jolette in montagna, ma cercavamo un valore profondo per queste relazioni interpersonali”. E racconta un episodio esemplare: “Abbiamo visto un ragazzo, che in genera non parla mai, aprirsi improvvisamente per ascoltare la musica con uno di loro, usando un auricolare a testa. Gesti piccoli, ma importantissimi per creare empatia”.
E anche nella due giorni al Monviso la convivenza è stata ottimale. Tra le piacevoli fatiche delle scalate e i sorrisi timidi scambiati nelle calde stanze del rifugio. “Tutti avevano una concezione diversa della disabilità”, spiega Pietro, parlando dei suoi “ex Moi”. “Nei loro Pesi di origine le persone con questo tipo di problematiche vengono emarginate, chiuse in casa. Qui invece ognuno si mette in gioco, superando i proprio limiti. E il bello sta proprio nella spontaneità delle azioni”.
L’idea è di implementare queste iniziative anche nel 2019. Magari cambieranno i partecipanti, una volta trovata un’occupazione per tutti i rifugiati, ma il progetto non si fermerà.
Come Umar, che da mesi attende dalla questura il permesso di soggiorno. Non ha precedenti penali, è pienamente pulito. E quelli sono gli unici documenti che gli permettano di cominciare a lavorare e diventare pian piano indipendente e autonomo. Serve ancora un po’ di pazienza, e spesso il nervosismo prende il sopravvento. Ma quella rabbia – giustificata – che lo pervadeva martedì mattina, prima della marcia alpina, è svanita del tutto nel corso delle ore, lasciando spazio a una ritrovata serenità.
La montagnaterapia è anche questo. “Vorrei che ognuno potesse vivere il più possibile una situazione di normalità allargata”, dice Pietro, “perché la dignità delle persone passa anche attraverso il benessere”.