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Eventi | 25 novembre 2020, 10:38

Tff38, ancora storie di vita da ogni angolo del mondo: ecco le recensioni di oggi

Le nostre impressioni sugli ultimi titoli visionati nella sezione in concorso Torino 38, "Eyimofe" e "Camp de Maci"

Tff38, ancora storie di vita da ogni angolo del mondo: ecco le recensioni di oggi

Sono tanti gli spaccati di umanità, afferenti alle più diverse culture, che trovano spazio nei titoli in concorso al 38° Torino Film Festival. Dall'Europa all'Estremo Oriente, passando per l'Africa, ogni titolo spalanca una porta su un immaginario geografico estremamente variegato.

Lo dimostrano gli ultimi film visionati nella sezione principale in concorso, Torino 38.

Eyimofe, di Arie e Chuko Esiri (Nigeria-USA, 116')

Storie di vita autentiche, e perfettamente coerenti, alle origini dei flussi migratori africani. Una bella scrittura, limpida e sincera, per un film modellato sul quotidiano, con e per la gente comune, che espone difficoltà, limiti e ristrettezze della più grande città della Nigeria, brulicante di umanità. 

I protagonisti, vicini e lontani, come binari paralleli, sono Mofe e Rosa. Lui lavora in fabbrica, lei fa la parrucchiera. Entrambi progettano di emigrare all’estero in cerca di nuove opportunità e una vita migliore. Ma il destino ostacola più volte i loro piani, facendoli inciampare tra problemi economici, rovelli familiari e continui ripensamenti. Finché la realizzazione del loro sogno non sfuma, e si vedono costretti a riconsiderare anche la possibilità di costruire lì, a Lagos, nel loro stesso mondo, il futuro che desiderano.

Un esordio efficace, schietto, curato in ogni dettaglio, capace di portare sul grande schermo non solo gli affanni emotivi, le speranze deluse e la fragilità travestita da determinazione dei suoi protagonisti, ma anche la pazienza di un intero popolo e la capacità di elaborare soluzioni, arrabattarsi e andare avanti.

Spiegano i registi Arie e Chuko Esiri: "Non vogliamo fare film per sostenere un determinato punto di vista o per persuadere qualcuno a pensare in un certo modo. Vogliamo raccontare una situazione specifica con il massimo di verità possibile, come si vive nel quotidiano qui a Lagos. Questo ha ripercussioni sul nostro modo di fare cinema, che è molto oggettivo, quasi documentaristico, proprio perché cerchiamo di trasmettere la verità della situazione. Volevamo solo che il pubblico avesse un’idea di questa parte di mondo che probabilmente non conosce o non ha mai visto. Che si riconoscesse nei personaggi, che empatizzasse con il loro viaggio emotivo. E anche che ricontestualizzasse ciò che ha sentito o meno sulle ragioni che spingono le persone a lasciare il loro Paese".

Da vedere.

Camp de Maci, di Eugen Jebeleanu (Romania, 81')

Un'opera frammentaria, che presenta un valido potenziale espositivo non sufficientemente sfruttato. Curiose le scelte registiche, con tagli di inquadratura che incorniciano in maniera irregolare i fittissimi dialoghi tra i personaggi, ma restandone in superficie, come un occhio che osserva dall'esterno senza interferire.

Cristi è un giovane poliziotto rumeno lacerato da contraddizioni esistenziali: lavora in un ambiente gerarchico e maschilista, ma, essendo gay, mantiene il massimo riserbo sulla propria vita privata, nascondendosi agli occhi di tutti e lottando per ammetterlo persino a se stesso. Nei giorni in cui Hadi, il ragazzo con cui ha una relazione a distanza, è venuto a fargli visita dalla Francia, Cristi viene chiamato per un intervento: un gruppo nazionalista e omofobo ha interrotto, in un cinema locale, la proiezione di un film a tematica omosessuale. Ma quando uno dei manifestanti, suo intima conoscenza, minaccia di smascherarlo, Cristi perde il controllo e lo aggredisce. 

Il regista, Eugen Jebeleanu, arriva dal teatro, e si vede. Ha messo in scena per prestigiosi festival europei vicende umane di persone non conformi alla cultura dominante e si ribellano contro i sistemi che censurano la libertà d’espressione. Il soggetto di Camp de Maci è certamente stimolante, ma si disperde in una serie di sequenze poco narrative e molto dialogiche, che potrebbero tranquillamente costituire il "primo atto" di una pièce ancora tutta da sviluppare.

Così l'autore descrive il suo esordio cinematografico: "Il contesto iniziale ha creato le premesse per dare vita a un tessuto narrativo e sociale che inserisse Cristi, poliziotto rumeno gay, in una catena di eventi e conseguenze legate alla sua identità. Cercando di adattarsi alle esigenze etero-normative del suo ambiente, Cristi incarna il conflitto e la vulnerabilità di molte persone LGBTQ+, rumene e non. In altre parole, il contesto sociale della storia innesca il conflitto interiore del protagonista e lo costringe a confrontarsi con se stesso nel tentativo di ritrovare il suo equilibrio".

Tematica complessa, qui non risolta, ma ipotetica apripista per esperimenti futuri. 

Manuela Marascio

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