Prigionieri di una contraddizione. Mentre un acceso sole primaverile scalda i pomeriggi torinesi, i bambini prendono d’assalto le aree gioco della città nonostante, per specifica ordinanza, queste valvole di sfogo sparse in ogni quartiere dovrebbero rimanere chiuse. Sbarrate con del nastro bianco-rosso, perché potenziale luogo di contagio da Covid.
Una scena forse naturale: i bambini, infatti, sono tra le categorie che più hanno patito gli effetti di un anno abbondante di pandemia e, di certo, non può essere a loro imputata una legittima voglia di sfogarsi, dopo intere giornate chiusi in casa.
Quello che evidentemente stona, guardando i nastri bianco e rossi strappati e le aree gioco piene, oltre all’ordinanza regionale valida fino al 6 aprile ma violata puntualmente, è il silenzio spettrale che avvolge le classi degli istituti di Torino e di ogni comune in zona rossa. Quelle stesse scuole simbolo di una socialità perduta, quegli istituti luoghi d’aggregazione per antonomasia raggiunti solo dalla Didattica a Distanza, attraverso un tablet.
Una condizione, come più volte denunciato da genitori, insegnanti e dagli stessi bimbi, che genera ogni giorno disuguaglianze e crea problemi non da poco, soprattutto tra le famiglie meno fortunate. Quelle che, avendo i figli a casa e non potendo prendere permessi da lavoro, sono costrette a dovere coinvolgere la categoria più fragile ed esposta al virus, i nonni, non potendo magari permettersi una baby sitter.
E allora, mentre il sole tramonta, gli ultimi bambini lasciano l’area gioco diventata per qualche ora un appiglio di normalità e ritornano a casa, nella loro stanzetta. Pronti a rivedere la mattina dopo i propri amici attraverso un pc, un telefono o uno schermo qualsiasi. Sognando l’area giochi proibita. Prigionieri di un paradosso.