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Economia e lavoro | 08 dicembre 2021, 10:32

Terzo settore e impatto sociale: la lezione della pandemia non ha eliminato i "pregiudizi" con il mondo di chi fa business

Cresce sempre di più la sensibilità sugli effetti di un'attività sul contesto in cui opera. Ma tra profit e no profit le collaborazioni sembrano influenzate ancora da convinzioni sbagliate. Calderini: "La contaminazione passa attraverso l'innovazione"

Cresce la sensibilità e l'attenzione delle aziende verso il terzo settore e l'impatto sociale

Cresce la sensibilità e l'attenzione delle aziende verso il terzo settore e l'impatto sociale

Sono sempre di più. E sempre di più vogliono prestare attenzione - nello svolgimento delle loro attività - a quel che succede nel territorio che le circonda. Sono le imprese a impatto sociale e i numeri della Camera di Commercio di Torino contano circa 5500 circa "forme organizzative" a impatto sociale presenti in Piemonte (dalle associazioni alle imprese sociali). Di queste, 2300 soltanto a Torino e provincia. E rispetto al 2019 l'aumento è stato, rispettivamente, dell'11 e del 14%. Le cooperative sociali sono circa un migliaio e il settore nel suo complesso ha generato 1,8 miliardi di fatturato nel 2020 (dato importante, benché in flessione del 3% rispetto al 2019), dando lavoro a 57mila addetti, in aumento di quasi il 6% sul 2019. Sono i numeri, insomma, a spiegare meglio di tante parole quanto stia crescendo, anche sul nostro territorio, un nuovo modello imprenditoriale più "vicino" all'ecosistema locale di appartenenza. E che, accanto ai bilanci, tiene in considerazione anche gli effetti sul mondo che lo circonda.

Gli effetti sulla comunità: sempre più un pensiero fisso

"Anche i fondi di investimento ormai mettono nei loro conti per gli analisti l'impatto sociale: ormai tutta la comunità finanziaria impone che si parli anche di questo e non solo di profitto puro. Si tratta di un cambio culturale che vogliamo agevolare e accompagnare", conferma Guido Bolatto, segretario generale della Camera di Commercio di Torino.
E se numeri alla mano le cooperative sociali sembrano in leggera flessione rispetto al 2019 (scendendo da 919 a 874), le imprese sociali sono invece in aumento, da 112 a 132. Mentre la crescita più importante riguarda il terzo settore non imprenditoriale (volontariato, da 3298 a 3504 e promozione sociale, da 583 a 917 realtà), anche a seguito di una certa "migrazione" verso i registri camerali.
A completare il quadro, anche le aziende definite come "profit", ma che per loro natura adottano pratiche di innovazione sociale: start up sociali, società benefit e così via.


[Da sinistra, Mario Calderini e Guido Bolatto insieme alla ricercatrice di Camera di Commercio]

L'effetto della pandemia, tra problemi e spinta a migliorare

Come è facile immaginare, la pandemia ha inciso pure su questo modo di intendere l'economia, anche se in maniera diversa rispetto al mondo puramente orientato al profitto. Tra i lati positivi, dicono le aziende sociali, soprattutto la spinta all'innovazione, mentre gli effetti negativi hanno riguardato in particolare l'approvvigionamento e l'organizzazione.
Quasi tutte le realtà analizzate, però (sia imprese sociali che profit) valutano come "buono" il rapporto con il territorio - succede in almeno un caso su due - e addirittura "ottimo" tra il 12 e il 14%. C'è comunque chi intende migliorare (dal 30% del profit al 20% del terzo settore).

Ma un'altra chiave di lettura che regalano le cifre riguarda proprio la spinta al cambiamento e a migliorare. Nel biennio pandemico quasi il 43% delle imprese profit ha fatto innovazione, mentre le imprese sociali sono state addirittura oltre l'81%, sia per quanto riguarda prodotto che processo.
La digitalizzazione, in particolare, vede soprattutto le imprese sociali in prima fila: 42% contro il 28% delle imprese profit, che però partivano già in condizioni migliori tra app, software e alfabetizzazione digitale.

I rapporti di collaborazione con il territorio

Ma se da un lato il 42% delle imprese sociali raccontano di forme di collaborazione istituzionali con il territorio, il 70% delle profit invece dichiara di non averne ancora sviluppate.
Gli obiettivi di chi fa rete, però, sono piuttosto chiari e delineati: le imprese sociali ragionano soprattutto in termini di reputazione e visibilità dell'impresa, ma anche la produzione di impatti positivi sulla comunità di appartenenza e sinergie con le imprese tradizionali.
Per le imprese profit, anche se con percentuali minori, i primi tre orientamenti sono gli stessi, ma oltre un'azienda su tre insegue anche benefici economici.
E per il futuro, anche il profit pian piano sembra orientato a sviluppare processi che favoriscano i rapporti con i soggetti del territorio: lo pensa il 21,9% del campione, mentre per le imprese sociali si supera il 50%.

Acquisti a impatto sociale: prove di dialogo (ma c'è strada da fare)

Ma le aziende profit e non profit dimostrano che c'è ancora molta strada da fare per quanto riguarda gli acquisti a impatto sociale, ovvero la scelta di comprare prodotti o servizi da parte di imprese no profit o di terzo settore. Insomma: i rapporti tra di loro. Solo 10 imprese profit su 100 comprano da imprese sociali, ma oltre una su due (51,2%) è disposta a valutare l'ipotesi.

In particolare, c'è un disallineamento tra le necessità delle aziende profit e l'offerta di quelle a impatto sociale: se le prime, per esempio, punterebbero su grafica ed editoria, le seconde sarebbero più disponibili a fornire formazione. Ma non solo: le discrepanze tra quel che l'imprenditoria sociale può e sa offrire riguardano anche servizi socio-sanitari e per l'infanzia, mentre sembrerebbe esserci maggiore allineamento sul welfare aziendale: se lo cercano il 21,2% delle imprese profit, sono disposte a offrirlo il 33,3% delle imprese a impatto sociale. In generale, ciò che ancora "blocca" le aziende profit nei rapporti con quelle a impatto sociale riguarda la convinzione che le fornitrici non trattino prodotti o servizi utili all'azienda, ma ci sono resistenze anche sulla qualità e alla competitività dei prezzi. Si tratta però di pregiudizi che diminuiscono (a volte anche in maniera notevole) quando poi si realizzano i primi rapporti di collaborazione. Quel che emerge, invece, una volta che i rapporti vengono avviati, è lo scarso orientamento delle imprese a impatto sociale verso l'aspetto puramente economico. Ma lo stesso, curiosamente, vale anche al contrario: oltre un'azienda no profit su tre ritiene di non essere adeguata alle richieste con le necessità delle aziende profit potenziali clienti. E lo stesso vale per specifiche di fornitura o prezzi. Una specie di "sindrome di Cenerentola" che soltanto con l'avvio dei rapporti viene almeno in parte ridimensionata.

Fragili, giovani, donne e benessere: ecco dove collaborare

Inclusione di soggetti fragili, formazione dei giovani, occupazione femminile e benessere dei dipendenti sembrano infine i quattro obiettivi che accomunano profit e non profit per nuove e future forme di collaborazione. Mentre sembra meno sviluppata l'affinità per sviluppare nuove tecnologie o nuovi prodotti. In questo campo, è forte l'interesse delle imprese a impatto sociale, ma le aziende profit sembrano meno inclini a questo tipo di collaborazione.

"Durante la pandemia il terzo settore ha risposto con il solito eroismo e la solita abnegazione, tenendo insieme situazioni che altrimenti sarebbero andati in pezzi - conclude Mario Calderini, portavoce di Torino Social Impact e al vertice dell'Osservatorio camerale per questi temi -, ma si sono anche rivelate fragilità di organizzazione, finanziarizzazione e innovazione anche tecnologica. Ci sono tutte le attenuanti del caso, ma il dato rimane e la propensione a innovare che dimostrano le aziende vanno in questa direzione".

"Ci sono modelli di business che non potranno più esistere come lo conoscevamo e proprio la partnership tra profit e terzo settore può essere il mondo di dare un futuro a turismo di prossimità, ma anche assistenza e non solo - prosegue Calderini -. Ci sono diffidenze e pregiudizi, come si vede, ma la capacità di stare sul mercato passa anche dalla ricerca di spazi ibridi in cui si può collaborare insieme, superando i disallineamenti reciproci. C'è una contaminazione da realizzare, pian piano. Ma è una contaminazione che sta avvenendo e che può andare avanti solo sulla strada dell'innovazione".

Massimiliano Sciullo

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